venerdì 9 agosto 2013

Il disastro di Marcinelle e la scarsa memoria storica

L'8 agosto 1956 un incendio nella miniera di Marcinelle (qui il rapporto completo, ma in francese) causò la morte di 262 lavoratori, di cui 136 erano italiani. Il disastro è storicamente il terzo tra quelli minerari per il numero di vittime italiane, dopo quelli statunitensi di Monongah e di Dawson. Alle celebrazioni dell'anniversario di tale tragedia è intervenuta anche il presidente della Camera Laura Boldrini, che ha dedicato buona parte del suo discorso a tracciare un parallelo tra la migrazione dall'Italia del passato e quella che oggi ci vede come paese d'ingresso e non più d'uscita.



Voglio riprendere alcuni estratti dal suo intervento integrale, che ci ricordano che noi italiani siamo "Un popolo che, per sfuggire alla povertà e, talvolta, alla miseria, ha conosciuto il dolore, ha conosciuto le umiliazioni, ha conosciuto i sacrifici dell'emigrazione. [...] Nel corso di poco più di un secolo, dall'unità d'Italia al 1985, si stima che ventinove milioni di persone abbiano lasciato l'Italia, diretti dapprima nelle Americhe e poi, dal secondo Dopoguerra, nei Paesi del Nord Europa. [...] Nel 1946, nelle città italiane comparvero manifesti che recitavano: «Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall'Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall'Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d'uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». Erano affissioni della Federazione carbonifera belga, pubblicate a seguito della firma dell'accordo bilaterale italo-belga che garantiva la vendita all'Italia di una quantità minima di carbone in cambio dell'invio di lavoratori in Belgio. [...] Gli operai italiani che partivano dalle regioni che allora erano le più povere - la Sicilia, la Puglia, l'Abruzzo, la Calabria, ma anche il Friuli ed il Veneto - per il «lavoro sotterraneo nelle miniere», come recita sempre il manifesto, affrontavano viaggi in condizioni difficilissime, stipati nei treni per giorni. Al loro arrivo, i lavoratori venivano destinati alle famigerate cantines, le baracche dove vivevano ammassati, senza acqua corrente, elettricità, servizi igienici. Venivano chiamati 'musi neri'. Spesso chi cercava un alloggio in affitto per potersi ricongiungere alla propria famiglia trovava affissa sulla porta la scritta: 'Ni animaux, ni étrangers'. Né animali, né stranieri. Proprio come oggi, in Italia, c'è chi specifica: 'Non si affitta a stranieri' negli annunci di locazione. In barba, oltre che alle nostre leggi, alla nostra storia. [...] Una storia che scegliamo di ignorare decidendo di non vedere, in quei migranti stremati che arrivano a Lampedusa, i volti dei nostri padri che partirono per Marcinelle, i loro stessi occhi. O accettando che chi, nel nostro Paese, riempie i cantieri edili e raccoglie i prodotti agricoli, lavori in condizioni inaccettabili - e viva in baracche fatiscenti o in rifugi di fortuna, senza acqua e elettricità. [...] Questo accade anche perché non si è coltivata a sufficienza la memoria. La memoria che ci ricorda eventi drammatici e momenti cui invece dovremmo ispirarci. La memoria che deve servire da guida per noi e per i nostri figli, per i quali va custodita ed ai quali va trasmessa con orgoglio e a testa alta."
Invece noi italiani abbiamo una scarsa memoria storica, un'elevata incapacità di ricordare i nostri drammi, i nostri errori (non a caso c'è gente che vota Berlusconi da vent'anni) e il nostro passato, anche perché non abbiamo per esso alcun interesse. Se non fossimo così, molti di noi non tratterebbero peggio delle bestie chi viene a cercare fortuna nel nostro paese per il semplice fatto di essere stranieri. Badate bene, non voglio entrare nella discussione sullo ius soli, ma parlare del fatto che i cittadini stranieri siano gli ultimi dei gironi infernali della burocrazia (ho visto io stesso file lunghe centinaia di metri di fronte alla questura di Udine di cittadini stranieri sotto la pioggia invernale, e ogni anno una mia compagna d'università cinese veniva sballottata tra segreteria universitaria e questura per il rinnovo del permesso di soggiorno), e questo quando va bene: i campi di pomodori e i cantieri edili più insicuri sono pieni di queste persone, che in essi subiscono i peggiori trattamenti, quando non trovano la morte.  Da due rapidi conti ogni italiano comune ha parenti che sono emigrati all'estero: i miei sono sparsi in Europa, Americhe e Australia, ad esempio. Se ciascuno di noi conoscesse o si ricordasse le storie di costoro, saremmo un paese molto più civile, perché non considereremmo gli italiani all'estero come cittadini di serie B (entrate in un consolato italiano all'estero, ad esempio, e capirete quello che intendo) né avremmo atteggiamenti xenofobi.
A riguardo, quando ancora esistevano i DS, una dei membri del circolo del mio comune mi regalò un libro (copertina raffigurata sulla sinistra) che con precise documentazioni e citazioni storiche ci ricorda che tutti gli stereotipi e i peggiori insulti che noi oggi rivolgiamo agli immigrati in passato erano destinati a noi, comprese le accuse di terrorismo. Questo testo ha un intero capitolo dedicato alla Svizzera (che mi mise i brividi quando lo lessi prima di trasferirmi a Zurigo), e la mia esperienza in questo paese mi ha portato a conoscenza con alcuni di coloro che hanno vissuto queste esperienze, in particolare quella dei bambini nascosti (con l'autrice del libro nel link ho anche avuto una discussione sugli F35, vi dirò...): la legislazione elvetica rendeva molto difficili i ricongiungimenti familiari, e quindi molti genitori tenevano nascosti i propri figli in casa per paura che questi potessero essere mandati al confine. E questa è storia recente: quando nel 1992 l'accordo italo svizzero pose fine a questa barbarie erano 1000 i bambini nascosti, e sono stati 30000 in tutta la storia dell'emigrazione. Per non ricordare poi le schedature degli stranieri considerati pericolosi... Ho avuto modo di conoscerne alcuni, in particolare la mia libraia preferita, Lisetta, che andava ad insegnare a leggere agli operai analfabeti così che poi potessero imparare un mestiere dai libri che lei procurava loro, e il mio modello di militante di sinistra Angelo Tinari, vittime di uno spionaggio che in confronto "Le vite degli altri" è una sciocchezza: "11 maggio 1967. Alle 19,35 il soggetto entrava al ristorante Ciro, Militästrasse 16. In un tavolo riservato lo aspettavano Maria Delfino Bonado e Adriano Molinari. Più tardi arriva un altro italiano...", dal fascicolo di Leo Zanier (beccatevi la biografia in koiné, tié...), altro schedato friulano (lui direbbe carnico: ah, il campanilismo...).
Queste storie andrebbero insegnate nelle scuole, proprio per formare quella memoria storica che è un requisito essenziale per ogni società civile e ne forma il patrimonio comune. Nel mio piccolo, contribuii assieme ai membri della Fabbrica di Zurigo (mi mancate un sacco, amiche e amici) a questo traguardo, con una rassegna cinematografica nel 2011 proprio sull'esperienza dell'emigrazione in Svizzera (locandina qui a fianco), ma ognuno di noi dovrebbe contribuire a mantenere vitale questo patrimonio di storie personali.
Perché il prezzo è la scomparsa dei diritti per una larga fascia di persone e, sempre per citare Laura Boldrini e l'intervento sopra menzionato, senza diritti si muore. Da ricordare a quelli come Fassino e Renzi che non hanno lesinato in passato affermazioni di lode per Marchionne...

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