mercoledì 12 giugno 2013

A volte ritornano: le analisi post-voto di Steve

Cari amici del blog

da queste pagine non c'è stato alcun segno di vita da metà aprile circa.
Gli impegni del sottoscritto, la maternità di una delle nostre autrici (a proposito, ancora congratulazioni, Santa Maria) e le molte attività degli altri autori hanno ridotto al silenzio questa voce online libera (perché scritta da ubriachi che quindi perdono ogni limite inibitorio...). Come la mala erba, però, i miei sproloqui sono dure a morire, e quindi rompo il silenzio di questo periodo con un'ennesima analisi elettorale.
Domenica 9 e lunedì 10 giugno scorsi vi sono stati i ballottaggi per i comuni al di sopra dei 15000 abitanti, tra cui 11 capoluogo di provincia, e il primo turno per le amministrative in Sicilia in vari comuni, tra cui 4 capoluogo di provincia.
Due sono i numeri eclatanti. Negli 11 comuni capoluogo al ballottaggio ha sempre vinto un candidato del centro-sinistra, che sommati ai 5 che avevano già eletto il loro sindaco due settimane prima danno un impressionante 16 a 0 nei confronti del centrodestra. L'altro dato con cui riassumere i risultati riguarda l'astensione: praticamente un italiano su due non ha votato nel secondo turno, decretando, come dirò più in dettaglio fra poco, una sconfitta per tutti i partiti candidati.
Come da mia abitudine, vi dò di seguito un commento dei risultati dei 4 attori principali: il M5S, il PDL, il PD e l'astensione. Comincerò da quest'ultima

L'astensione
L'unica vera vincitrice di tutte le elezioni amministrative che sono venute dopo le legislative dello scorso febbraio è l'astensione. Se da un lato i partiti tradizionali non sembrano in grado di recuperare elettori e sono in caduta libera (come numero assoluto di preferenze) rispetto alle precedenti elezioni, neanche il M5S sembra riuscire a raccogliere, almeno per queste votazioni locali, la delusione che impera tra l'elettorato. 
Lo slogan qui a fianco (Lasciate ogni speranza o voi che votate) ricalca un atteggiamento pericoloso sempre più diffuso tra i votanti, convinti come Mark Twain che "Se votare facesse la differenza non ce lo lascerebbero fare". So che sembrerò retorico, ma il voto è stata una conquista importantissima e decisamente giovane: si pensi che il suffragio universale maschile in Italia esiste da meno di 100 anni, e fu ampliato alle donne solo a partire dal referendum sulla Repubblica del 2 giugno 1946. Questo disincanto per la democrazia partecipata (non partecipativa, mi raccomando) è però pericoloso perché, qualora arrivasse davvero un capopopolo capace di conquistare le folle come fece Mussolini nel primo dopoguerra, il rischio dittatura sarebbe fortissimo: non mi ricordo chi lo disse, ma il concetto "La democrazia viene abbandonata per venire surclassata dalla dittatura quando non è più efficace nell'affrontare i problemi delle persone" ha un fondo di verità.

Il M5S
La foto qui a fianco rappresenta l'unica nota di consolazione per il M5S da queste elezioni amministrative: Ragusa è l'unico comune capoluogo, tra quelli in cui si è votato due settimane fa e quelli siciliani dello scorso fine settimana, in cui un candidato del M5S (Federico Piccitto) sia riuscito ad andare al ballottaggio. Per il resto, il movimento fondato da Grillo e Casaleggio non ha avuto successo in nessun comune demograficamente significativo, ed è riuscito a conquistare i due soli comuni di Pomezia e Assemini, cosa però che ha generato soddisfazione, come dichiarato da Beppe Grillo sul suo blog. Con tutta l'amicizia che posso avere per i cittadini di questi due paesi, non mi pare un risultato rilevante.
Ma la vera sconfitta del M5S secondo me non è data tanto dai risultati nei comuni in cui si è votato due settimane fa, ma da quelli relativi alle elezioni in Sicilia. Nei quattro comuni principali in cui si è votato il M5S, Ragusa a parte (dove ha ottenuto il 15%), non è andato oltre il 5% (Catania, Siracusa e Messina). Se è vero che questo dato non si può confrontare con il 33% ottenuto in Sicilia alla Camera (politiche e amministrative sono elezioni completamente diverse), lo stesso non si può dire per il paragone con i risultati delle regionali siciliane del 2012: quella volta il M5S fu il primo partito della regione con il 15% dei voti. Insomma, un vero e proprio tracollo.
Ma ciò che secondo me dovrebbe preoccupare i militanti del M5S non è tanto il dato elettorale, ma la reazione degli eletti: se due settimane fa Beppe Grillo ne attribuiva la responsabilità agli elettori, definendoli collusi col potere per non perdere i propri privilegi, oggi polemicamente, in risposta ad una parlamentare che ce l'aveva con lui e che è stata cacciata dal movimento, dice "Vorrei sapere cosa pensa il MoVimento 5 Stelle di queste affermazioni, se sono io il problema". 
Non ascoltate chi parla di "Massimalismo", o di "Italiani stufi della sola protesta". Andrea Scanzi, giornalista non certo ostile al M5S, ricorda questi concetti nel suo blog, eppure egli espresse in una trasmissione televisiva un concetto per me più azzeccato. Il M5S è ad un bivio per lui tremendo: o si organizza con una vera struttura e una classe dirigente sul territorio per radicarsi, e allora si snatura, o non lo fa, e allora è destinato a dipendere sempre di più da Beppe Grillo a livello nazionale e a non riuscire a farsi conoscere a livello locale, e quindi a non riscuotere consensi. Il punto è proprio questo: il radicamento sul territorio richiede proprio una macchina organizzativa che non può ridursi al solo volontariato, che purtroppo costa parecchi soldi, e che è tipica di un partito vero e proprio. Per ora il M5S ha successo a livello nazionale perché lì è Grillo a fare il trascinatore, ma a livello locale contano molto di più il contesto specifico, i singoli candidati (per cui, a differenza che nelle politiche, si può esprimere il voto di preferenza direttamente) e i problemi locali, e quindi presentare persone provenienti dal circuito per ora ristretto dei "Meet up" e delle votazioni online non porta a niente. 
Per portarla all'eccesso, il M5S deve scegliere: morire diventando un partito (e quindi con la possibilità di diventare qualcos'altro), o morire diventando un bluff?

Il PDL
Ho scelto la foto di Alemanno che piange dopo la sconfitta per vari motivi: un po' perché le elezioni romane erano le più importanti (due milioni di elettori chiamati al voto), un po' perché rappresenta l'essenza del risultato del PDL di queste elezioni.
Paradossalmente, come per il M5S, il PDL è troppo dipendente dal suo capo e fondatore Silvio Berlusconi, con l'aggravante che se il M5S è nato da poco, il PDL e i suoi predecessori hanno 20 anni.
L'odierna destra italiana è Silvio Berlusconi, punto. È significativo che una buona parte di una destra che non si riducesse ai destini del suo capo, quella emersa proprio a Roma con le elezioni comunali del '93 e il ballottaggio tra Fini e Rutelli, giunga proprio ora alla sua fine. Sto parlando di una destra romana forte, pur in una città che mai è stata veramente di destra, ma che nonostante ciò ha avuto grande influenza sulla politica italiana e ha rappresentato l'alter-ego di Berlusconi: mediatico quest'ultimo, legata a un forte attivismo politico "vecchio genere" e radicata sul territorio la prima. 
Sfasciatasi questa con il naufragio di Fini alle ultime politiche, il fiasco di "Fratelli d'Italia" e l'insuccesso di Alemanno alle comunali, non si vede nella galassia del centrodestra nessuno che possa costituire un'alternativa al dominus Berlusconi. Alla destra di oggi manca ogni ricambio generazionale: l'unica flebile possibilità, usata quasi come un feticcio nelle trasmissioni televisive, è il sindaco di Pavia Alessandro Cattaneo, animatore dei "formattatori", una specie di versione di destra dei rottamatori renziani. Un po' poco, se mi è permesso. Insomma, la destra oggi sembra sempre più ridotta alla sola tutela del destino di Silvio Berlusconi, e ciò anche per uno come me che si considera di sinistra è preoccupante.

Il PD
Apparentemente il PD e il centrosinistra sembra no tenere, anzi strabordare, avendo vinto in tutti i comuni capoluogo. Un dato però, riguardante il ballottaggio di Roma, dovrebbe far preoccupare questo schieramento: Marino ha vinto con meno voti di quelli con cui Rutelli perse cinque anni prima (confrontare i risultati attuali con quelli di cinque anni fa). Il centrosinistra non è risalito rispetto alle ultime politiche, in termini di voti assoluti, ed ha perso rispetto alle precedenti amministrative. E allora perché alla fine vince così tanto? La risposta è relativamente semplice: a differenza del M5S, il PD ha una struttura capillare a livello locale che nasce dalla storia dei suoi predecessori, e questo porta ad avere uno zoccolo duro (elettori irriducibili che lo votano sempre e comunque) di molto più vasto rispetto a quello degli altri partiti, che non possono contare su un tale pacchetto di partenza. Insomma, alle ultime elezioni hanno votato in gran parte gli irriducibili, e questi stanno soprattutto nel PD. Ma con i soli inossidabili non si va lontano: un partito che abbia a cuore il proprio futuro dovrebbe porsi il problema di riuscire a vincere le elezioni conquistando coloro che non lo hanno mai votato. Renzi non suscita le mie simpatie, ma è l'unico che abbia espresso chiaramente questo concetto: se nel 2008 il PD ha perso e il PDL ha trionfato, per vincere nel 2013 il PD avrebbe dovuto prendere voti di gente che nel 2008 ha votato il PDL (lasciamo stare poi che lui risponde a questo problema con una proposta snaturata da ogni ideale minimamente riconducibile a qualcosa di sinistra...). Invece, il PD non riesce ad allargarsi, si limita semplicemente a contrarsi in misura minore rispetto al suo teorico contraltare, il PDL: un atteggiamento puramente difensiva che non può portare a nessuna vera vittoria, e che conduce allo stallo delle politiche, dove non votano solo gli irriducibili.
Il punto è che chi ha vinto alle comunali lo ha fatto nonostante il suo partito e la dirigenza nazionale: come Debora Serracchiani alle ultime regionali in Friuli Venezia Giulia, questa è tutta gente che ha vinto perché esiste un partito con dei candidati a livello locale, diversi dalla dirigenza nazionale. Lo slogan di Marino "Roma, non politica" (cito a memoria, probabilmente in maniera erronea) è indicativo di una necessità di marcare una certa distanza dalla politica nazionale e di evidenziare la dimensione locale addirittura eccessiva, ma comprensibile in un momento in cui la nomenclatura del partito ha perso ogni credibilità e questo appare per ogni candidato più un peso che una risorsa. Il guaio è che il successo del PD in termini di città conquistate potrebbe far dimenticare questo enorme problema.

Per concludere
Può qualcuno cantar vittoria? Secondo me no, soprattutto chi sembra aver vinto e potrebbe per questo dimenticare i tanti problemi irrisolti ancora rimasti. Insomma: che desolazione...

Nessun commento:

Posta un commento