giovedì 24 ottobre 2013

Una polemica costruita sul nulla: il negazionismo (inesistente) di Odifreddi

Come menzionato nel mio post precedente, mi ero ripromesso di parlare della polemica nata da due interventi che il matematico Odifreddi ha pubblicato sul suo blog su Repubblica. A causa di questi ultimi egli è stato accusato di negazionismo, termine con cui si indicano coloro che, anche a dispetto delle prove date, negano che un particolare genocidio sia avvenuto: nel caso di Odifreddi, si parla della Shoah, ossia lo sterminio di massa perpetrato dalla Germania nazista ai danni della popolazione ebraica di diversi paesi europei.
Come si può capire dal titolo, trovo queste accuse assurde, e voglio dimostrarlo cominciando dal delineare un breve (e quindi senz'altro incompleto) profilo del personaggio pubblico Odifreddi.
Egli è un ateo, anticlericale e relativista dei più radicali. Per chi non lo sapesse, il relativismo è quella corrente filosofica che nega l'esistenza di verità assolute, e nacque con Protagora di Abdera, filosofo che sintetizza questa posizione nella sua famosa frase:

L'uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono.

Ora, a parte che sono sempre rimasto stupito dal fatto che una cittadina della provincia greca abbia dato i natali a due delle più importanti teorie che hanno trovato successo nella modernità: il relativismo, appunto, e l'atomismo di Democrito (le cose sono costituite di atomi).
Ma tornando a Odifreddi, le tre caratteristiche di cui sopra, che io mi ritrovo a condividere pur senza la sua intensità, unite purtroppo al carattere del personaggio, che mischia due spocchie in uno, quella del professore universitario e quella dell'ateo convinto che chi crede in un Dio meriti lo stesso rispetto di chi è convinto che un gatto nero porti sfortuna, contribuiscono a fare di lui una persona probabilmente antipatica, ma non un negazionista, e anzi spiegano i due post di cui sopra.
Piergiorgio Welby, morto per aver rifiutato le cure che lo
tenevano in vita pur essendo malato terminale, a cui la
Chiesa ha negato i funerali religiosi.
Il primo, Priebke come Welby, non ha effettivamente un titolo felice, pur considerando la voglia del suo autore di provocare sempre e comunque. Ma se si ricorda l'anticlericalismo di Odifreddi, si capisce subito il significato di tale intervento. La Chiesa Cattolica, sette anni fa, rifiutando di dare sepoltura a Welby perché quest'ultimo scelse di fare della sua volontà di morire rifiutando le cure un caso pubblico, ha commesso un tale abominio da dare prova ancora una volta dell'infondatezza della sua pretesa di ergersi ad autorità morale che può dire a tutti come comportarsi: qualunque decisione su Priebke e sul consentire per lui un funerale religioso risulta quindi sbagliata se si considera questo precedente. Rifiutare di celebrare un rito per lui equivarrebbe a porre sullo stesso piano un malato che, in nome della propria dignità, ha semplicemente deciso di rifiutare le cure e lasciarsi morire, con un assassino della peggior specie, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, che ha agito in nome di una delle più aberranti ideologie che l'umanità abbia mai partorito, il nazismo; dare sepoltura a Priebke, invece, avrebbe voluto dire che la Chiesa ritiene peggiore Welby, altra posizione assolutamente non accettabile.
Nel suo secondo intervento, Stabilire la verità storica per legge, egli non condivide la decisione, da parte del Parlamento, di voler istituire il reato di negazionismo. La sua posizione è, in breve, che lo stato non ha diritto di stabilire per legge quali verità storiche siano inconfutabili, e che quindi leggi del genere non hanno diritto di esistere. Egli, facendo una graduatoria tra verità più o meno inconfutabili (da quelle logico-matematiche a quelle storiche in ordine decrescente, passando per quelle scientifiche) cita alcuni precedenti statunitensi che tentavano di stabilire per legge il valore di alcune costanti matematiche, per sottolineare la validità della sua tesi. Esempio migliore sarebbe stato il reato di "Apologia del fascismo", tutt'ora esistente in Italia, anche se ormai raramente applicato, ma probabilmente lo ha evitato di proposito. 
Detto in breve, per me lo stato deve stabilire alcune verità etico-morali (Si può abortire o no? Si può rubare o no? Si può uccidere o no?) e ha diritto di farlo in quanto ente elettivo nella sua dirigenza politica, a cui il popolo delega (non cede) la sua sovranità. A chi dice che un paragone tra omicidio e negazionismo non regge perché se fosse possibile uccidere allora la nostra società collasserebbe, ricordo che gran parte delle civiltà del passato erano proprio basate sull'omicidio e sulla violenza, e che non si può ridurre il tutto a una mera questione di convenienza. Il relativismo, per quanto da me approvato, spinto a questi estremi ha conseguenze drammatiche, quando non ad alcune contraddizioni logiche. Si pensi infatti al seguente dialogo:
A: "Non esiste niente in cui credere ciecamente"
B: "Ma ne sei sicuro?"
A: "Assolutamente sì".
Resta vero che molti traguardi della nostra società (i diritti dell'infanzia, delle donne, delle minoranze) sono recenti, se confrontati con la storia delle civiltà umane, e proprio questo li rende fragili e allo stesso tempo necessari di difesa. Lo stato ha questo compito, e se non lo facesse abdicherebbe al suo compito. D'altronde, credere che le leggi non possono censurare alcuna opinione non ha senso: si pensi all'istigazione a delinquere di chi invita ad uccidere i neri. Anche in questo caso lo stato stabilisce che alcune cose non si possono affermare, e questo sempre in nome di alcuni principi che esso può stabilire in quanto democraticamente eletto. Ciò è necessario perché, a differenza di quanto diceva il grande Socrate, non è vero che chi compie del male lo fa perché non conosce il bene: la pulsione di dominio e di violenza è purtroppo innata, e su questo aveva più ragione Nietzsche.
Proprio per questo servono le leggi che determinano una base di cosa sia giusto e cosa no, sia in campo etico ma anche, purtroppo, in campo storico: vietare la difesa del fascismo (ma in realtà andrebbe fatto con tutti i regimi totalitari), il negazionismo o tutte le espressioni di odio serve a cercare di evitare di ripetere gli stessi errori fatti nel passato. Solo in una società perfetta, dove tutti gli uomini agiscono sempre razionalmente, non odiano e non discriminano, tali prescrizioni non servirebbero. Ma allora si realizzerebbe il sogno degli anarchici, e non sarebbero necessarie regole scritte e istituzioni che le fanno rispettare: un mondo meraviglioso, ma purtroppo ancora lontano.

mercoledì 23 ottobre 2013

Steve chiama partito - Partito risponde tramite Twitter

Volevo scrivere un post su quanto fosse stata montata la pretestuosa polemica sul negazionismo di Odifreddi (spiegherò più avanti perché pretestuosa, ma, detto in breve, egli non aveva alcuna intenzione di negare la Shoah nei suoi due post incriminati). Un fatto contingente però ha causato un cambio nelle mie intenzioni.
In miei numerosi post su Twitter citavo il PD, a volte per lodarlo, più spesso per criticarlo, da ex iscritto che, specie recentemente, prova un rapporto di amore e odio con il suo partito. Non mi è mai arrivata risposta, né d'altronde me l'aspettavo: ho pochi follower su Twitter, e lo uso soprattutto come canale per pubblicizzare il blog o per qualche sfogo scritto di impulso.
Ieri però mi è arrivata risposta a un tweet di questa mattina. Riporto lo scambio qui sotto
Piccola nota per chi non seguisse le vicende del PD. Otto giorni fa Guglielmo Epifani, segretario pro tempore del partito, ha lanciato un'iniziativa, che ha chiamato Identify PD (perché poi queste cose debbano avere un nome inglese non lo capisco). Iscritti e non al partito possono caricare video su un sito dedicato in cui raccontano il PD che vorrebbero. Riguardo Twitter, se in un messaggio si usa parola preceduta dal simbolo # (in gergo hashtag), si indica che si sta parlando di quell'argomento, e quindi altri utenti possono, cercando tweet a riguardo, trovare il messaggio che si è scritto. Probabilmente i volontari (o precari) che curano l'iniziativa hanno trovato così il mio messaggio.
Ieri mattina, sulla trasmissione televisiva Agorà su Rai 3, hanno mostrato un collage dei video caricati su questo sito, e uno di essi appunto diceva che, dopo aver votato per anni sinistra, si è deciso a cambiare e votare Renzi. Col mio tweet volevo sottolineare questa contraddizione della sinistra oggi (Renzi vincerà quasi sicuramente le primarie, e con grande consenso), di affidarsi a un leader in cui molti non si riconoscono.
Venendo al tweet, quelli di Identify PD mi chiedono di dare il mio contributo. Io lo darò per iscritto. Sembrerà banale, ma io voglio un PD che sia di sinistra. Così però la questione diventa: ma cosa vuoi dire con "sinistra"?
Chiarisco sin d'ora che non esiste una risposta indipendente dal contesto (essere di sinistra in Italia è diverso dall'essere di sinistra in India) e dall'epoca (esserlo oggi è diverso dall'esserlo 30 anni fa). Per questo Blair, da certe parti vituperato, negli anni '90 era di sinistra, perché ha cercato di rispondere alla crisi data dal crollo dei blocchi con una dottrina che conciliasse il vincente capitalismo con delle esigenze sociali: per lui allora essere di sinistra significava dare ad ognuno, indipendentemente dalla sua condizione di partenza, le stesse probabilità di esprimere il proprio potenziale e di venire per questo premiato con il successo.
Oggi però la situazione è completamente diversa: l'individualismo e l'egoismo sono dominanti, e quindi dire solo "Siete liberi di arricchirvi perché noi garantiremo a tutti la possibilità di farlo" non basta più. A queste due piaghe vanno opposte due nuove parole come la solidarietà e l'equità: le potenzialità di ciascuno e il funzionamento del sistema devono essere volti a un benessere diffuso, comune, che non lascia nessuno indietro e che dia a ciascuno secondo i propri meriti, ma senza concentrazioni di ricchezza eccessive mai giustificabili. Per questo ho partecipato con entusiasmo l'anno scorso alla campagna di Bersani, che già nel dare alla coalizione il nome "Italia bene comune" aveva capito che c'era bisogno di questa svolta.
Qualcuno potrebbe rispondere che un vero blarismo in Italia non si è mai avuto, e quindi è necessario passare attraverso questo stadio: da qui ad esempio la necessità di votare Renzi. Ebbene, questo è parzialmente vero, ma quella dottrina era nata per una certa società, e oggi le cose sono completamente cambiate: sarebbe come pensare che, poiché in Italia non c'è stata la rivoluzione francese, allora bisogna farla ora, visto che è stata una tappa decisiva per quel paese.
Ma è appunto il fatto che queste due parole d'ordine oggi siano completamente dimenticate, assieme a "diritti", a rendermi triste: oggi vorrei un partito che sappia parlare di questi concetti, per contrastare veramente il plagio di 40 anni di neoliberismo che hanno inciso nel profondo delle nostre coscienze e hanno prodotto i guai di oggi: la solidarietà contro l'egoismo, l'equità contro l'individualismo, i diritti per tutti contro i privilegi nelle mani di pochi.
Ambiente, gestione pubblica dei beni pubblici (vi ricordate la vergognosa indecisione sui referendum sull'acqua dei dirigenti proprio mentre gli elettori raccoglievano le firme e poi facevano propaganda?), sanità e scuola pubbliche (niente soldi ai privati), uno stato che funzioni meglio (e che sia capace quindi di affrontare davvero le sacche di inefficienza che purtroppo ci sono), dottrina del lavoro (o la protezione è dai licenziamenti ingiusti o essa si garantisce con un generoso sistema di sussidi di disoccupazione veramente centrati su una formazione e un aggiornamento professionale seri, ma non si possono lasciare i lavoratori a sé stessi), un fisco che colpisca le rendite e i patrimoni e garantisca i redditi da lavoro e da pensione e gli investimenti produttivi, diritti degli omosessuali a vedere riconosciute le loro unioni, diritti dei migranti a non passare mesi in galere dalle condizioni igieniche scandalose solo perché clandestini, diritti delle donne affinché il genere non sia una variabile che fa la differenza nei rapporti sociali, una giustizia che colpisca severamente non solo i ladri di polli ma i grandi corruttori ed evasori (che derubano sessanta milioni di italiani), delle leggi che colpiscano i privilegi e le rendite di posizione, scelte economiche che non ci portino ad essere un enorme luogo di vacanza per ricchi di altre nazioni, puntando sui settori strategici del futuro (energia pulita, mobilità sostenibile, la società dell'informazione, tanto per dirne alcuni) e non buttando soldi in aziende decotte, per produrre davvero nuovi posti di lavoro.
Queste sono solo alcune tante cose che un partito di sinistra oggi in Italia deve fare. L'elenco è assolutamente incompleto, ma già da solo richiede anni e una strategia di lungo periodo: sarà il PD in grado di raccogliere queste sfide, e non agire sulla base dei sondaggi minuto per minuto?

P.S.: so che il tweet lo ha scritto un povero precario o un volontario, e che qualcuno potrebbe dire "Ma chi te la fa fare di rispondere?" Ma proprio perché dall'altra parte o c'è uno che ci crede davvero in quello che fa o uno sfruttato, entrambe queste figure meritano comunque una risposta.

sabato 19 ottobre 2013

Paese di camerieri, guide turistiche e ristoratori...

Una delle ricette che molti propongono per il futuro del nostro paese è basata sulla parola "bellezza". Secondo costoro, poiché nell'industria le delocalizzazioni (ossia lo spostamento delle attività produttive in paesi con un costo del lavoro minore) sono un processo inevitabile, la ripresa del nostro paese deve passare irrimediabilmente da quel patrimonio che il nostro paese ha e che non può essere spostato altrove: paesaggio, cultura e cibo.
Ora, effettivamente io ogni volta che andavo a trovare i miei zii a Matera e vedevo un panorama dei Sassi come quello qui sulla sinistra rimanevo stupefatto (per tutti i campanilisti come me, non rompete, so che ce ne sono tantissimi di bei paesaggi). Inoltre, capolavori culinari come i bucatini all'amatriciana, enologici come i vini del Collio (così ho citato anche qualcosa del centro o e del nord Italia), città che tolgono il fiato come Venezia, Firenze, Roma o Napoli possono essere usati per fare tanti soldi: non è vero, come disse Tremonti un giorno (quello vero purtroppo, non l'imitazione di Guzzanti) che la cultura non si mangia. Per non dimenticare il patrimonio del tessile.
Ma...
Ma davvero vogliamo pensare che l'unico futuro dell'Italia sia diventare un enorme museo a cielo aperto, con le sue città che vivono di visitatori mordi e fuggi come nei parchi dei divertimenti intenti a comprare borse e vestiti di lusso, e pensare che agriturismo e ristorazione possano salvarci dal declino? Vogliamo davvero ridurre noi e i nostri figli ad una massa di camerieri, cuochi, lavapiatti, ristoratori, agricoltori, guide turistiche e chi più ne ha più ne metta?
È vero, il turismo può portare enormi guadagni, ma anche i paesi che sono davanti a noi per numero di visitatori, compresi quelli che hanno subito una forte deindustrializzazione, non vivono di solo turismo: la Francia ha case automobilistiche e compagnie farmaceutiche, gli Stati Uniti hanno Google ed Apple, la Cina è ormai il capannone industriale del mondo e la Spagna, persino la Spagna, con Telefonica sta comprando la Telecom.
Ci vogliamo rendere conto che senza un settore industriale con i controfiocchi non andiamo da nessuna parte? Ovviamente industria non vuol dire solo acciaierie stile ILVA di Taranto: però avevamo un settore chimico competitivo, facevamo computer prima di Steve Jobs, e potrei andare avanti a lungo... E ora la soluzione quale deve essere? Ridurci a una specie di enorme villaggio vacanze? Beh, i paesi che dipendono in gran parte dal turismo sono l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e le isole del Pacifico: chi parla della bellezza come di un deus ex machina salvifico (e non posso non andare con la testa a Renzi in questo caso) ci pensi bene, io voglio che i miei figli possano anche scegliere di fare il dottore, lo scienziato, l'avvocato, l'ingegnere, persino l'operaio qualificato. Senza attività produttive non si crea ricchezza, la si mendica dagli altri: e io, come tanti, non voglio che l'Italia si riduca a una sorta di intrattenitore accattone.

venerdì 18 ottobre 2013

La scuola come un campo di guerra

Dopo un lungo periodo di silenzio dovuto agli impegni per ottenere l'abilitazione all'insegnamento (avrò gli esami finali il 28 e il 29 ottobre, ma ormai il più è fatto) torno con un post che solo casualmente è dedicato al mondo della scuola.
In queste settimane si può vedere sulla televisione italiana la seguente pubblicità, in cui si parla di raccogliere carta da donare alla scuola pubblica (per scrivere, non igienica, anche se pure quest'ultima scarseggia da quelle parti...).


Non fraintendetemi, è lodevole che un privato promuova l'obiettivo di donare 5 milioni di fogli di carta, per di più riciclata, alle scuole italiane: quello che trovo vergognoso è che tali iniziative siano necessarie. Generalmente questo tipo di donazioni si fanno per cause come costruire ospedali e campi per rifugiati in zone di guerra, o per chi fa volontariato o si occupa di fare ricerca su malattie troppo rare per interessare alle grandi compagnie farmaceutiche (vedere iniziative tipo Telethon). Che sia la scuola ad aver bisogno della beneficenza altrui, mancando addirittura di uno strumento semplice e allo stesso tempo fondamentale come la carta, però, aiuta a capire quale sia l'attuale declino del nostro paese.
Sarò retorico quando dico che un paese costruisce il proprio futuro tramite la scuola, e che quest'ultima è il mezzo migliore per garantire l'ascesa sociale a chi parte svantaggiato, ma sono tutte cose vere e sacrosante. Che uno stato giunga a disinteressarsi di essa, e quindi del proprio avvenire, talmente tanto che a questa manca persino la carta per stampare i testi dei compiti in classe sarebbe assurdo ovunque, ma non in Italia, dove purtroppo la retorica del cambiamento e della speranza per il futuro si sprecano, ma restano inutili se agli inviti alla speranza, che in ogni caso deve essere riacquistata, non seguono interventi concreti, reali, che aiutino a mantenere o a ricostruire il necessario ottimismo per l'avvenire.
Tranquilli, non voglio fare uno dei miei sproloqui di politica, però sentivo il bisogno di segnalare questa cosa. Da notare che simbolicamente il disinteresse della politica per la scuola pubblica non è cominciato da qualche liberista di destra: la Riforma Bassanini del 1999, quando al governo c'era D'Alema, fuse il Ministero dell'Istruzione Pubblica con quello dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, formando l'attuale MIUR. Tale legge fu attuata durante il governo Berlusconi del 2001, e Letizia Moratti fu il primo ministro dell'istruzione senza la dicitura "pubblica". Essa fece una breve ricomparsa nel 2006, quando ci fu l'esperienza del traballante secondo governo Prodi, per poi venire definitivamente cancellata quando Berlusconi rivinse nel 2008. Sto parlando di un simbolo, lo so, ma è significativo che lo Stato decida di smettere di concepire quella pubblica come l'istruzione per eccellenza, e ciò sia stato fatto da un governo di centro-sinistra.
Ora però vi saluto, e per rimanere in tema vi offro questo video con l'imitazione, fatta da Paola Cortellesi, di Letizia Moratti, in cui l'avversione per l'istruzione pubblica è simboleggiata dal fatto che tale parola viene da lei sempre bofonchiata. Alla prossima.