sabato 23 novembre 2013

JFK

Per il centesimo post pubblicato su questo blog bisognava per forza scegliere un argomento speciale, di grande importanza, e una volta tanto la storia è stata d'aiuto: il 22 novembre del 1963, a Dallas, moriva in un attentato John Fitzgerald Kennedy, noto anche con le sue iniziali JFK, che Oliver Stone prese per dare il titolo al suo film sulla figura di questo presidente statunitense e sui dubbi che ancora oggi circondano la sua morte.
Non parlerò però di tutte le teorie formulate in questi cinquant'anni su questo episodio: in fondo, basterà aspettare il 2017, anno in cui il presidente degli U.S.A. che sarà in carica potrà, se vorrà, togliere il segreto sugli oltre mille documenti della CIA che parlano di questa morte. La numerosità di tali teorie però fa capire quanto tale l'attentato abbia colpito il mondo intero, e le recenti dichiarazioni di John Kerry, ministro degli esteri della presidenza Obama, scettiche riguardo al fatto che Oswald, l'assassinio di Kennedy, abbia agito da solo, fanno comunque pensare che gli storici avranno ancora tanto lavoro da fare.
In questo post voglio cercare di rispondere a una domanda: perché Kennedy ha rappresentato e rappresenta ancora per intere generazioni un modello politico?
Se andiamo a guardare i risultati ottenuti nella sua presidenza, non si può certo parlare di grandissimi successi. In politica interna viene ricordato essenzialmente per il lancio del programma spaziale Apollo (concepito dal suo predecessore Eisenhower come continuazione del Mercury) e per il suo sostegno, da molti però ritenuto timido, ai diritti degli afroamericani, tema allora molto caldo: ricordo che nel 1963 il governatore dell'Alabama, Wallace, con un'azione clamorosa impedì che due studenti di colore entrassero nell'università di quello stato per iscriversi, nonostante ciò fosse consentito da una sentenza della Corte Suprema del 1954. Questo episodio è talmente famoso da essere citato persino nel film Forrest Gump.
In politica estera poi, a parte il famoso discorso "Ich bin ein Berliner" tenuto a Berlino Ovest e la creazione dei Peace Corps, i risultati sono poco encomiabili: come non ricordare il modo in cui gestì la presa di potere di Castro a Cuba e il disastroso tentativo di invasione militare della Baia dei Porci? Non si può poi dimenticare che l'escalation che portò all'impiego militare statunitense in Vietnam iniziò proprio sotto la presidenza Kennedy, con l'aumento dei consiglieri militari americani nella parte meridionale ad economia capitalista. 
Certo, questo ritratto è un po' impietoso, e sottovaluta le speranze che la sua elezione hanno suscitato, in particolare con il suo programma di politica interna denominato "Nuova Frontiera". Forse gli è mancato il tempo per realizzare le sue promesse, o le forti tensioni della Guerra Fredda (ricordo che si è sfiorata una guerra nucleare quando l'Unione Sovietica stava costruendo delle basi missilistiche a Cuba) gli hanno impedito di concentrarsi sulle sue promesse. Però era un fatto che la sua popolarità, prima del suo assassinio, era molto bassa, e infatti Kennedy si era recato in Texas a Dallas proprio per cercare di recuperare consensi.
Quali sono allora i meriti di Kennedy? Uno su tutti: ha cambiato il modo di fare politica. Dopo di lui, nessun presidente ha più ignorato l'importanza dell'immagine e della comunicazione per la propria carriera. Su quest'ultima basta pensare, oltre al già menzionato discorso di Berlino Ovest, al dibattito elettorale televisivo con Nixon: la sua sicurezza, il modo in cui parlava agli elettori, gli hanno permesso di vincere poi le elezioni. Per quanto riguarda l'immagine, in fondo è stato il primo presidente glamour, con una vita personale ingombrante (le sue numerose avventure con amanti di tutti i tipi ne sono un esempio), una moglie che stava benissimo sotto i riflettori e un abile uso del fare del suo privato un formidabile strumento politico: la foto qui sulla sinistra, coi figli di JFK nello studio ovale, ne è un esempio geniale.
Kennedy è stato insomma il primo politico moderno, e in fondo persino la sua morte, come per molte rockstar, ha contribuito a crearne il mito.

giovedì 24 ottobre 2013

Una polemica costruita sul nulla: il negazionismo (inesistente) di Odifreddi

Come menzionato nel mio post precedente, mi ero ripromesso di parlare della polemica nata da due interventi che il matematico Odifreddi ha pubblicato sul suo blog su Repubblica. A causa di questi ultimi egli è stato accusato di negazionismo, termine con cui si indicano coloro che, anche a dispetto delle prove date, negano che un particolare genocidio sia avvenuto: nel caso di Odifreddi, si parla della Shoah, ossia lo sterminio di massa perpetrato dalla Germania nazista ai danni della popolazione ebraica di diversi paesi europei.
Come si può capire dal titolo, trovo queste accuse assurde, e voglio dimostrarlo cominciando dal delineare un breve (e quindi senz'altro incompleto) profilo del personaggio pubblico Odifreddi.
Egli è un ateo, anticlericale e relativista dei più radicali. Per chi non lo sapesse, il relativismo è quella corrente filosofica che nega l'esistenza di verità assolute, e nacque con Protagora di Abdera, filosofo che sintetizza questa posizione nella sua famosa frase:

L'uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle che non sono, in quanto non sono.

Ora, a parte che sono sempre rimasto stupito dal fatto che una cittadina della provincia greca abbia dato i natali a due delle più importanti teorie che hanno trovato successo nella modernità: il relativismo, appunto, e l'atomismo di Democrito (le cose sono costituite di atomi).
Ma tornando a Odifreddi, le tre caratteristiche di cui sopra, che io mi ritrovo a condividere pur senza la sua intensità, unite purtroppo al carattere del personaggio, che mischia due spocchie in uno, quella del professore universitario e quella dell'ateo convinto che chi crede in un Dio meriti lo stesso rispetto di chi è convinto che un gatto nero porti sfortuna, contribuiscono a fare di lui una persona probabilmente antipatica, ma non un negazionista, e anzi spiegano i due post di cui sopra.
Piergiorgio Welby, morto per aver rifiutato le cure che lo
tenevano in vita pur essendo malato terminale, a cui la
Chiesa ha negato i funerali religiosi.
Il primo, Priebke come Welby, non ha effettivamente un titolo felice, pur considerando la voglia del suo autore di provocare sempre e comunque. Ma se si ricorda l'anticlericalismo di Odifreddi, si capisce subito il significato di tale intervento. La Chiesa Cattolica, sette anni fa, rifiutando di dare sepoltura a Welby perché quest'ultimo scelse di fare della sua volontà di morire rifiutando le cure un caso pubblico, ha commesso un tale abominio da dare prova ancora una volta dell'infondatezza della sua pretesa di ergersi ad autorità morale che può dire a tutti come comportarsi: qualunque decisione su Priebke e sul consentire per lui un funerale religioso risulta quindi sbagliata se si considera questo precedente. Rifiutare di celebrare un rito per lui equivarrebbe a porre sullo stesso piano un malato che, in nome della propria dignità, ha semplicemente deciso di rifiutare le cure e lasciarsi morire, con un assassino della peggior specie, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, che ha agito in nome di una delle più aberranti ideologie che l'umanità abbia mai partorito, il nazismo; dare sepoltura a Priebke, invece, avrebbe voluto dire che la Chiesa ritiene peggiore Welby, altra posizione assolutamente non accettabile.
Nel suo secondo intervento, Stabilire la verità storica per legge, egli non condivide la decisione, da parte del Parlamento, di voler istituire il reato di negazionismo. La sua posizione è, in breve, che lo stato non ha diritto di stabilire per legge quali verità storiche siano inconfutabili, e che quindi leggi del genere non hanno diritto di esistere. Egli, facendo una graduatoria tra verità più o meno inconfutabili (da quelle logico-matematiche a quelle storiche in ordine decrescente, passando per quelle scientifiche) cita alcuni precedenti statunitensi che tentavano di stabilire per legge il valore di alcune costanti matematiche, per sottolineare la validità della sua tesi. Esempio migliore sarebbe stato il reato di "Apologia del fascismo", tutt'ora esistente in Italia, anche se ormai raramente applicato, ma probabilmente lo ha evitato di proposito. 
Detto in breve, per me lo stato deve stabilire alcune verità etico-morali (Si può abortire o no? Si può rubare o no? Si può uccidere o no?) e ha diritto di farlo in quanto ente elettivo nella sua dirigenza politica, a cui il popolo delega (non cede) la sua sovranità. A chi dice che un paragone tra omicidio e negazionismo non regge perché se fosse possibile uccidere allora la nostra società collasserebbe, ricordo che gran parte delle civiltà del passato erano proprio basate sull'omicidio e sulla violenza, e che non si può ridurre il tutto a una mera questione di convenienza. Il relativismo, per quanto da me approvato, spinto a questi estremi ha conseguenze drammatiche, quando non ad alcune contraddizioni logiche. Si pensi infatti al seguente dialogo:
A: "Non esiste niente in cui credere ciecamente"
B: "Ma ne sei sicuro?"
A: "Assolutamente sì".
Resta vero che molti traguardi della nostra società (i diritti dell'infanzia, delle donne, delle minoranze) sono recenti, se confrontati con la storia delle civiltà umane, e proprio questo li rende fragili e allo stesso tempo necessari di difesa. Lo stato ha questo compito, e se non lo facesse abdicherebbe al suo compito. D'altronde, credere che le leggi non possono censurare alcuna opinione non ha senso: si pensi all'istigazione a delinquere di chi invita ad uccidere i neri. Anche in questo caso lo stato stabilisce che alcune cose non si possono affermare, e questo sempre in nome di alcuni principi che esso può stabilire in quanto democraticamente eletto. Ciò è necessario perché, a differenza di quanto diceva il grande Socrate, non è vero che chi compie del male lo fa perché non conosce il bene: la pulsione di dominio e di violenza è purtroppo innata, e su questo aveva più ragione Nietzsche.
Proprio per questo servono le leggi che determinano una base di cosa sia giusto e cosa no, sia in campo etico ma anche, purtroppo, in campo storico: vietare la difesa del fascismo (ma in realtà andrebbe fatto con tutti i regimi totalitari), il negazionismo o tutte le espressioni di odio serve a cercare di evitare di ripetere gli stessi errori fatti nel passato. Solo in una società perfetta, dove tutti gli uomini agiscono sempre razionalmente, non odiano e non discriminano, tali prescrizioni non servirebbero. Ma allora si realizzerebbe il sogno degli anarchici, e non sarebbero necessarie regole scritte e istituzioni che le fanno rispettare: un mondo meraviglioso, ma purtroppo ancora lontano.

mercoledì 23 ottobre 2013

Steve chiama partito - Partito risponde tramite Twitter

Volevo scrivere un post su quanto fosse stata montata la pretestuosa polemica sul negazionismo di Odifreddi (spiegherò più avanti perché pretestuosa, ma, detto in breve, egli non aveva alcuna intenzione di negare la Shoah nei suoi due post incriminati). Un fatto contingente però ha causato un cambio nelle mie intenzioni.
In miei numerosi post su Twitter citavo il PD, a volte per lodarlo, più spesso per criticarlo, da ex iscritto che, specie recentemente, prova un rapporto di amore e odio con il suo partito. Non mi è mai arrivata risposta, né d'altronde me l'aspettavo: ho pochi follower su Twitter, e lo uso soprattutto come canale per pubblicizzare il blog o per qualche sfogo scritto di impulso.
Ieri però mi è arrivata risposta a un tweet di questa mattina. Riporto lo scambio qui sotto
Piccola nota per chi non seguisse le vicende del PD. Otto giorni fa Guglielmo Epifani, segretario pro tempore del partito, ha lanciato un'iniziativa, che ha chiamato Identify PD (perché poi queste cose debbano avere un nome inglese non lo capisco). Iscritti e non al partito possono caricare video su un sito dedicato in cui raccontano il PD che vorrebbero. Riguardo Twitter, se in un messaggio si usa parola preceduta dal simbolo # (in gergo hashtag), si indica che si sta parlando di quell'argomento, e quindi altri utenti possono, cercando tweet a riguardo, trovare il messaggio che si è scritto. Probabilmente i volontari (o precari) che curano l'iniziativa hanno trovato così il mio messaggio.
Ieri mattina, sulla trasmissione televisiva Agorà su Rai 3, hanno mostrato un collage dei video caricati su questo sito, e uno di essi appunto diceva che, dopo aver votato per anni sinistra, si è deciso a cambiare e votare Renzi. Col mio tweet volevo sottolineare questa contraddizione della sinistra oggi (Renzi vincerà quasi sicuramente le primarie, e con grande consenso), di affidarsi a un leader in cui molti non si riconoscono.
Venendo al tweet, quelli di Identify PD mi chiedono di dare il mio contributo. Io lo darò per iscritto. Sembrerà banale, ma io voglio un PD che sia di sinistra. Così però la questione diventa: ma cosa vuoi dire con "sinistra"?
Chiarisco sin d'ora che non esiste una risposta indipendente dal contesto (essere di sinistra in Italia è diverso dall'essere di sinistra in India) e dall'epoca (esserlo oggi è diverso dall'esserlo 30 anni fa). Per questo Blair, da certe parti vituperato, negli anni '90 era di sinistra, perché ha cercato di rispondere alla crisi data dal crollo dei blocchi con una dottrina che conciliasse il vincente capitalismo con delle esigenze sociali: per lui allora essere di sinistra significava dare ad ognuno, indipendentemente dalla sua condizione di partenza, le stesse probabilità di esprimere il proprio potenziale e di venire per questo premiato con il successo.
Oggi però la situazione è completamente diversa: l'individualismo e l'egoismo sono dominanti, e quindi dire solo "Siete liberi di arricchirvi perché noi garantiremo a tutti la possibilità di farlo" non basta più. A queste due piaghe vanno opposte due nuove parole come la solidarietà e l'equità: le potenzialità di ciascuno e il funzionamento del sistema devono essere volti a un benessere diffuso, comune, che non lascia nessuno indietro e che dia a ciascuno secondo i propri meriti, ma senza concentrazioni di ricchezza eccessive mai giustificabili. Per questo ho partecipato con entusiasmo l'anno scorso alla campagna di Bersani, che già nel dare alla coalizione il nome "Italia bene comune" aveva capito che c'era bisogno di questa svolta.
Qualcuno potrebbe rispondere che un vero blarismo in Italia non si è mai avuto, e quindi è necessario passare attraverso questo stadio: da qui ad esempio la necessità di votare Renzi. Ebbene, questo è parzialmente vero, ma quella dottrina era nata per una certa società, e oggi le cose sono completamente cambiate: sarebbe come pensare che, poiché in Italia non c'è stata la rivoluzione francese, allora bisogna farla ora, visto che è stata una tappa decisiva per quel paese.
Ma è appunto il fatto che queste due parole d'ordine oggi siano completamente dimenticate, assieme a "diritti", a rendermi triste: oggi vorrei un partito che sappia parlare di questi concetti, per contrastare veramente il plagio di 40 anni di neoliberismo che hanno inciso nel profondo delle nostre coscienze e hanno prodotto i guai di oggi: la solidarietà contro l'egoismo, l'equità contro l'individualismo, i diritti per tutti contro i privilegi nelle mani di pochi.
Ambiente, gestione pubblica dei beni pubblici (vi ricordate la vergognosa indecisione sui referendum sull'acqua dei dirigenti proprio mentre gli elettori raccoglievano le firme e poi facevano propaganda?), sanità e scuola pubbliche (niente soldi ai privati), uno stato che funzioni meglio (e che sia capace quindi di affrontare davvero le sacche di inefficienza che purtroppo ci sono), dottrina del lavoro (o la protezione è dai licenziamenti ingiusti o essa si garantisce con un generoso sistema di sussidi di disoccupazione veramente centrati su una formazione e un aggiornamento professionale seri, ma non si possono lasciare i lavoratori a sé stessi), un fisco che colpisca le rendite e i patrimoni e garantisca i redditi da lavoro e da pensione e gli investimenti produttivi, diritti degli omosessuali a vedere riconosciute le loro unioni, diritti dei migranti a non passare mesi in galere dalle condizioni igieniche scandalose solo perché clandestini, diritti delle donne affinché il genere non sia una variabile che fa la differenza nei rapporti sociali, una giustizia che colpisca severamente non solo i ladri di polli ma i grandi corruttori ed evasori (che derubano sessanta milioni di italiani), delle leggi che colpiscano i privilegi e le rendite di posizione, scelte economiche che non ci portino ad essere un enorme luogo di vacanza per ricchi di altre nazioni, puntando sui settori strategici del futuro (energia pulita, mobilità sostenibile, la società dell'informazione, tanto per dirne alcuni) e non buttando soldi in aziende decotte, per produrre davvero nuovi posti di lavoro.
Queste sono solo alcune tante cose che un partito di sinistra oggi in Italia deve fare. L'elenco è assolutamente incompleto, ma già da solo richiede anni e una strategia di lungo periodo: sarà il PD in grado di raccogliere queste sfide, e non agire sulla base dei sondaggi minuto per minuto?

P.S.: so che il tweet lo ha scritto un povero precario o un volontario, e che qualcuno potrebbe dire "Ma chi te la fa fare di rispondere?" Ma proprio perché dall'altra parte o c'è uno che ci crede davvero in quello che fa o uno sfruttato, entrambe queste figure meritano comunque una risposta.

sabato 19 ottobre 2013

Paese di camerieri, guide turistiche e ristoratori...

Una delle ricette che molti propongono per il futuro del nostro paese è basata sulla parola "bellezza". Secondo costoro, poiché nell'industria le delocalizzazioni (ossia lo spostamento delle attività produttive in paesi con un costo del lavoro minore) sono un processo inevitabile, la ripresa del nostro paese deve passare irrimediabilmente da quel patrimonio che il nostro paese ha e che non può essere spostato altrove: paesaggio, cultura e cibo.
Ora, effettivamente io ogni volta che andavo a trovare i miei zii a Matera e vedevo un panorama dei Sassi come quello qui sulla sinistra rimanevo stupefatto (per tutti i campanilisti come me, non rompete, so che ce ne sono tantissimi di bei paesaggi). Inoltre, capolavori culinari come i bucatini all'amatriciana, enologici come i vini del Collio (così ho citato anche qualcosa del centro o e del nord Italia), città che tolgono il fiato come Venezia, Firenze, Roma o Napoli possono essere usati per fare tanti soldi: non è vero, come disse Tremonti un giorno (quello vero purtroppo, non l'imitazione di Guzzanti) che la cultura non si mangia. Per non dimenticare il patrimonio del tessile.
Ma...
Ma davvero vogliamo pensare che l'unico futuro dell'Italia sia diventare un enorme museo a cielo aperto, con le sue città che vivono di visitatori mordi e fuggi come nei parchi dei divertimenti intenti a comprare borse e vestiti di lusso, e pensare che agriturismo e ristorazione possano salvarci dal declino? Vogliamo davvero ridurre noi e i nostri figli ad una massa di camerieri, cuochi, lavapiatti, ristoratori, agricoltori, guide turistiche e chi più ne ha più ne metta?
È vero, il turismo può portare enormi guadagni, ma anche i paesi che sono davanti a noi per numero di visitatori, compresi quelli che hanno subito una forte deindustrializzazione, non vivono di solo turismo: la Francia ha case automobilistiche e compagnie farmaceutiche, gli Stati Uniti hanno Google ed Apple, la Cina è ormai il capannone industriale del mondo e la Spagna, persino la Spagna, con Telefonica sta comprando la Telecom.
Ci vogliamo rendere conto che senza un settore industriale con i controfiocchi non andiamo da nessuna parte? Ovviamente industria non vuol dire solo acciaierie stile ILVA di Taranto: però avevamo un settore chimico competitivo, facevamo computer prima di Steve Jobs, e potrei andare avanti a lungo... E ora la soluzione quale deve essere? Ridurci a una specie di enorme villaggio vacanze? Beh, i paesi che dipendono in gran parte dal turismo sono l'Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e le isole del Pacifico: chi parla della bellezza come di un deus ex machina salvifico (e non posso non andare con la testa a Renzi in questo caso) ci pensi bene, io voglio che i miei figli possano anche scegliere di fare il dottore, lo scienziato, l'avvocato, l'ingegnere, persino l'operaio qualificato. Senza attività produttive non si crea ricchezza, la si mendica dagli altri: e io, come tanti, non voglio che l'Italia si riduca a una sorta di intrattenitore accattone.

venerdì 18 ottobre 2013

La scuola come un campo di guerra

Dopo un lungo periodo di silenzio dovuto agli impegni per ottenere l'abilitazione all'insegnamento (avrò gli esami finali il 28 e il 29 ottobre, ma ormai il più è fatto) torno con un post che solo casualmente è dedicato al mondo della scuola.
In queste settimane si può vedere sulla televisione italiana la seguente pubblicità, in cui si parla di raccogliere carta da donare alla scuola pubblica (per scrivere, non igienica, anche se pure quest'ultima scarseggia da quelle parti...).


Non fraintendetemi, è lodevole che un privato promuova l'obiettivo di donare 5 milioni di fogli di carta, per di più riciclata, alle scuole italiane: quello che trovo vergognoso è che tali iniziative siano necessarie. Generalmente questo tipo di donazioni si fanno per cause come costruire ospedali e campi per rifugiati in zone di guerra, o per chi fa volontariato o si occupa di fare ricerca su malattie troppo rare per interessare alle grandi compagnie farmaceutiche (vedere iniziative tipo Telethon). Che sia la scuola ad aver bisogno della beneficenza altrui, mancando addirittura di uno strumento semplice e allo stesso tempo fondamentale come la carta, però, aiuta a capire quale sia l'attuale declino del nostro paese.
Sarò retorico quando dico che un paese costruisce il proprio futuro tramite la scuola, e che quest'ultima è il mezzo migliore per garantire l'ascesa sociale a chi parte svantaggiato, ma sono tutte cose vere e sacrosante. Che uno stato giunga a disinteressarsi di essa, e quindi del proprio avvenire, talmente tanto che a questa manca persino la carta per stampare i testi dei compiti in classe sarebbe assurdo ovunque, ma non in Italia, dove purtroppo la retorica del cambiamento e della speranza per il futuro si sprecano, ma restano inutili se agli inviti alla speranza, che in ogni caso deve essere riacquistata, non seguono interventi concreti, reali, che aiutino a mantenere o a ricostruire il necessario ottimismo per l'avvenire.
Tranquilli, non voglio fare uno dei miei sproloqui di politica, però sentivo il bisogno di segnalare questa cosa. Da notare che simbolicamente il disinteresse della politica per la scuola pubblica non è cominciato da qualche liberista di destra: la Riforma Bassanini del 1999, quando al governo c'era D'Alema, fuse il Ministero dell'Istruzione Pubblica con quello dell'Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, formando l'attuale MIUR. Tale legge fu attuata durante il governo Berlusconi del 2001, e Letizia Moratti fu il primo ministro dell'istruzione senza la dicitura "pubblica". Essa fece una breve ricomparsa nel 2006, quando ci fu l'esperienza del traballante secondo governo Prodi, per poi venire definitivamente cancellata quando Berlusconi rivinse nel 2008. Sto parlando di un simbolo, lo so, ma è significativo che lo Stato decida di smettere di concepire quella pubblica come l'istruzione per eccellenza, e ciò sia stato fatto da un governo di centro-sinistra.
Ora però vi saluto, e per rimanere in tema vi offro questo video con l'imitazione, fatta da Paola Cortellesi, di Letizia Moratti, in cui l'avversione per l'istruzione pubblica è simboleggiata dal fatto che tale parola viene da lei sempre bofonchiata. Alla prossima.

domenica 25 agosto 2013

TFA, che tormento...

Per usare parole di un illustre pregiudicato, faccio qui un uso criminoso di un blog collettivo, per raccontare una vicenda del tutto personale, ma che può essere presa come paradigma delle assurdità italiane in tema di lavoro e pianificazione.
Nel giugno dello scorso anno partecipai ad un concorso pubblico, e lo vinsi, per poter frequentare la scuola di abilitazione all'insegnamento, il TFA, appunto. Esso sarebbe dovuto consistere in un anno di corsi: ho usato il condizionale perché poi tra i vari ritardi il tutto si è ridotto a 5 mesi, e ufficialmente io sono immatricolato nell'anno accademico 2011/2012, pur avendo cominciato a metà gennaio 2013. Il TFA per le scuole superiori sostituisce la precedente modalità di abilitazione all'insegnamento, la SSIS, che prevedeva anch'essa un concorso ma due anni di corso. Tra TFA e SSIS vi è un'altra, importantissima differenza, che però vi illustrerò più tardi.
Prima vorrei fare un piccolo excursus su come funziona il reclutamento degli insegnanti. Per un resoconto più completo, vi rimando a questo link.
In sintesi, la legge 417 del 1989 aveva stabilito che vi fossero due modi per essere assunti a tempo pieno nelle scuole: il concorso e le graduatorie, ossia liste in cui ad ogni iscritto viene assegnato un punteggio sulla base dell'anzianità di servizio e dei titoli. Per il fatto che il concorso, che sarebbe dovuto essere triennale a partire dal 1990 ma in realtà si è svolto con molti ritardi, ricorsi e lacune (quello del 1993 non si svolse e dopo il 1999 non ce ne furono più fino al 2012, e questo è ancora in corso), le graduatorie hanno costituito per lungo tempo l'unico canale per il reclutamento.
La legge finanziaria del 2007 però stabilì che l'assunzione degli insegnanti poteva accadere solo tramite concorso, e che le graduatorie di prima fascia, quelle da cui vengono pescati i futuri insegnanti di ruolo, sarebbero state chiuse e sarebbero diventate ad esaurimento. Il concorso divenne così l'unico modo per diventare di ruolo ma, come già anticipato, a partire da questa decisione (che è del 2006) altri sei anni dovettero passare prima che ce ne fosse un altro.
Il concorso per il futuro sarà (si dice) riservato solo a chi ha ottenuto l'abilitazione, mentre quello ancora in corso era accessibile anche per chi avesse ottenuto la laurea del vecchio ordinamento o avesse un certo numero di giorni di servizio. Per questo l'abilitazione diventa importante, e qui entrano in gioco il TFA e la SSIS.
Quest'ultima dava anche accesso alle graduatorie di prima fascia, mentre il TFA no: poiché l'ultimo concorso è stato di recente, temo che passerà molto tempo prima che ne indicano un altro; spero non 13 anni, ma di sicuro non ce ne sarà uno l'anno prossimo. La cosa assurda di tutto ciò è che per avere questo titolo, oltre ad un concorso pubblico, ho anche dovuto frequentare una scuola e sostenere degli esami, il tutto per ritrovarmi in mano qualcosa che è carta straccia, visto che il prossimo concorso non sarà prima di altri due anni.
Poco male, dirà qualche informato: il TFA ti permette di entrare in seconda fascia, ossia quella delle supplenze riservata agli abilitati, e quindi qualche speranza ce l'hai. Sì e no, perché le graduatorie verranno riaperte l'anno prossimo, e quindi fino ad allora il titolo sarà completamente inutile e comunque non potrò insegnare, visto che le messe a disposizione inviate a tutte le scuole sono un semplice pro forma. Inoltre, c'è la storia dei PAS...
Questi sono insegnanti che hanno maturato tre anni di servizio tra il 1999 e il 2012 i quali, senza alcun esame d'ammissione a numero chiuso come quello che ho dovuto sostenere io, potranno frequentare un'altra scuola d'abilitazione simile a quella che ho fatto io: ebbene, ai PAS potrebbero iscriversi 100,000 insegnanti o aspiranti tali, che senza alcun merito, se non di essere protetti dai sindacati di categoria come ha scritto Stella, avranno praticamente la mia stessa abilitazione. Scrivo "praticamente" perché la mia, in graduatoria, varrà 6 punti, che però sono pochissimi, e quindi mi ritroverò sorpassato da probabilmente 80,000 docenti abilitati PAS (i cui 3 anni di servizio valgono almeno 18 punti) per le scuole superiori e da gran parte degli abilitati normali, senza contare quelli che sono già dentro tali graduatorie (per cui purtroppo non ho trovato un numero). Per capire il livello di preparazione di molti PAS, basti pensare che al primo dei tre test che ho dovuto affrontare per Matematica e Fisica a causa degli errori del ministero sono state abbuonate 13 domande (io avevo passato il test anche senza abbuono, mi hanno fermato allo scritto successivo per le domande di storia della matematica), e quindi per passare bastava fare giuste 28 domande su 60, meno della metà: insomma questa gente con anni di insegnamento non conosce la materia che insegna. C'è da dire che non basta sapere le cose per insegnare bene, però mi pare comunque un prerequisito fondamentale.
Tornando ai dati, offro giusto un altro paio di numeri per inquadrare meglio la situazione. In Italia, fonte Zanichelli Scuola, vi sono 260,000 insegnanti delle scuole superiori. Ebbene, nelle graduatorie ad esaurimento, che però comprendono tutte le scuole, vi sono 240,000 insegnanti in attesa, da sommare agli 80,000 PAS. Sommate questi ai membri della seconda fascia e agli abilitati di quest'anno e capirete che praticamente le supplenze che potrò ottenere saranno poche, se non nulle.
Tenete inoltre conto che nel 2012 sono stati regolarizzati circa 12,000 insegnanti dalle Graduatorie ad Esaurimento (GaE) e altri 12,000 dal concorso, a cui hanno partecipato 300,000 candidati. Di questi ritmi, le GaE si esauriranno in 20 anni, quindi a molti altri oltre che a me tocca sperare in un concorso che non si sa quando sarà, e fare affidamento su supplenze o andare ad insegnare al CEPU, se uno vuole insegnare.
A fronte di questi numeri, appare ancora più assurda la decisione del Ministro dell'Istruzione Carrozza di istituire un secondo ciclo TFA per 29,000 posti, per un titolo che non vale niente se non il biglietto per partecipare ad un concorso lotteria. Ma sempre facendo due conti si scopre che questa volontà non è così assurda, ma costituisce una tassa occulta sulle spalle di molti poveri (chi vuole abilitarsi non è di ruolo, quindi o spera nelle supplenze o non ha un lavoro, perché difficilmente uno che guadagna bene si va ad impelagare in queste cose): il mio corso di TFA l'ho dovuto pagare 2625 €. I posti disponibili per il mio TFA erano 15,792: sommati agli almeno 80,000 PAS e ai 29,000 del prossimo ciclo di TFA fanno più di 300 milioni, una bella boccata d'ossigeno per la nostra università, che si vede restituita una buona parte degli 800 milioni rimossi dal Fondo di Finanziamento Ordinario che il ministero ha predisposto per il 2012 e il 2013.
A fronte di tutto ciò, mi resta una sola cosa da fare: ricominciare la ricerca di lavoro in Svizzera che avevo interrotto proprio perché dovevo frequentare i corsi TFA, il cui esame finale per me sarà il 28 ottobre: ma questa è un'altra storia...
E per non pensare a queste assurdità che distruggono il cervello, mi congedo con i miei psichedelici preferiti, i Pink Floyd, anche se ho scelto la canzone per le uniche parole pronunciate al rallentatore: "One of these days I'm going to cut you into little pieces": so io chi farei a pezzettini...


mercoledì 21 agosto 2013

Earth Overshoot Day: c'è un debito pubblico di cui si parla molto poco...

© Sarah Weishaupt / WWF Schweiz
Il venti agosto scorso è scattato l'Earth Overshoot Day, ossia il giorno a partire dal quale l'essere umano vive a debito delle risorse del nostro pianeta. Dal 1987 noi tutti consumiamo in un anno più di quanto la Terra riesca a produrre nello stesso periodo di tempo: servirebbero 1.5 pianeti come il nostro per soddisfare le nostre esigenze.
Dal 2011 i giornali italiani sono pieni di titoli sul debito pubblico monstre, e delle sue conseguenze negative per noi che dobbiamo ripagarlo e per coloro che verranno dopo di noi qualora non si riuscisse a ridurlo in maniera significativa.
Il deficit che stiamo alimentando nel consumo delle risorse naturali invece non suscita interesse: viviamo prosciugando l'acqua che si è accumulata nel tempo, consumando il suolo e aumentando l'estensione dei deserti, derubando i nostri figli della loro ricchezza per il nostro benessere.
Se le prime pagine dei giornali e dei telegiornali fossero state dedicate a questo enorme debito che stiamo accumulando ci sarebbe una maggiore consapevolezza di questo problema e delle sue cause: ad esempio, un allevamento intensivo portato al parossismo, un'agricoltura che spreca la nostra acqua infischiandosene di applicare tecniche meno dispendiose idricamente, i nostri stili di vita pieni di sprechi (rubinetti sempre aperti, televisioni sempre accese, riscaldamenti troppo alti, riciclaggio esiguo, e chi più ne ha, più ne metta), ma potrei andare avanti ancora a lungo.
L'attenzione su questo dramma invece è minima, quando non nulla, anche da parte di chi dovrebbe esservi più sensibile: ad esempio, nel cercare sul sito del WWF Italia delle pagine che parlassero di questo tema, non ho trovato niente che si riferisse a quest'anno.
Dobbiamo invece essere più consapevoli, adottando noi stessi stili di vita più ecosostenibili, ad esempio mangiando meno carne, usando di più i mezzi pubblici, limitando i nostri consumi: insomma, quelle ricette che in fondo molti di noi avranno sentito almeno una volta nella vita. Però questo non basta, dobbiamo pretendere che anche chi ci governa segua il nostro esempio e abbia come obiettivo una società con un'impronta ecologica via via minore. Mi piange il cuore, a vedere che l'unico movimento che sul suo sito ha parlato del Wolrd Overshoot Day sia il Movimento 5 Stelle, e che né PD né SEL, che facevano parte di una coalizione chiamata "Italia Bene Comune" vi dedicano almeno una riga: cosa c'è di più comune del nostro pianeta?

Riforma della legge elettorale

Stimolato dal post che ho trovato sul blog di Mattia Butta (che figura tra quelli segnalati nella barra sulla destra), ho maturato un paio di riflessioni sul tema legge elettorale, la cui modifica a ondate figura sui titoli dei giornali o nelle dichiarazioni dei politici (che per fortuna non sono sempre in prima pagina). Per riassumere, egli propone una sua legge elettorale che dovrebbe ridurre al minimo la possibilità di avere una classe elettorale fatta solo da uomini di apparato pronti a farsi guidare dal leader di turno.
Chiarisco una cosa: la legge elettorale non serve a garantire l'elezione dei "migliori", dei più preparati, o degli integerrimi. Le competenze e caratteristiche personali non sono garanzia per la carriera politica (un ottimo primario può essere un pessimo ministro della salute) proprio perché la politica è anch'essa un lavoro, che richiede una certa esperienza e delle abilità specifiche per poter essere fatto al meglio. E quindi non si può fare a colpi di solo "spirito di servizio" o di volontariato, ma qui rischio di divagare...
Tornando al punto, allora a cosa serve una legge elettorale? Vi sono due fini, non sempre in concordia, che un'elezione dovrebbe perseguire: la rappresentatività degli eletti rispetto agli elettori e l'espressione di una chiara maggioranza di governo. Poiché l'opinione pubblica è un animale molto complesso e mutevole è difficile che le sue sfumature possano essere pienamente rappresentate, se non al prezzo di forti rischi di ingovernabilità. Per evitare ciò, in genere si preferiscono sistemi di tipo maggioritario con collegi di tipo uninominale (che possono esprimere un solo eletto), mentre per la rappresentatività si tende ad orientarsi su leggi proporzionali (qui un valido riassunto delle varie possibilità).
Non sempre governabilità e rappresentatività però sono in disaccordo: la Svizzera, per esempio, ha un sistema elettorale in cui ogni partito si candida e prende i suoi voti, e poi i sette posti di governo vengono suddivisi sulla base dei risultati delle liste (la cosiddetta formula magica). Un tale sistema elettorale non ha alcuna preoccupazione per la stabilità di governo, e anzi le maggioranze variabili su specifici provvedimenti sono frequenti (ad esempio, le espulsioni degli stranieri), ma ciò non è visto come un problema. In Italia, almeno formalmente, c'era una cosa simile, il Pentapartito, che ha dato 7 governi in 13 anni, questo a conferma che non è solo la legge elettorale che conta. A riguardo non posso non menzionare i ribaltoni avvenuti anche nel Regno Unito, proprio a scapito della Lady di Ferro Thatcher, pur essendo questa nazione patria del maggioritario uninominale. Questi sono comunque casi estremi: il proporzionale in genere rappresenta bene l'elettorato, a patto di avere una bassa astensione e partiti radicati nella società, e il maggioritario garantisce coalizioni stabili, purché queste siano ben assemblate e non solo basate sul principio del battere l'avversario e la differenza di voti tra i vari schieramenti sia sufficientemente cospicua.
Se invece si vogliono altre cose, bisogna cercare altri rimedi: ad esempio, partiti radicati richiedono una classe dirigente che sappia capire le tendenze politiche e un elettorato partecipe, mentre si hanno coalizioni ben assemblate solo se i loro membri discutono in precedenza ciò che si propongono di fare e se mantengono la parola data agli altri in caso di vittoria elettorale. Per riassumere, servono dei cittadini capaci di formarsi una propria opinione in maniera più o meno consapevole e una classe dirigente di qualità, che può esistere solo se esiste una base ampia di persone di buon livello. Queste cose sono garantite solo da una buona istruzione (e non a caso questo è il settore dove si è tagliato di più negli ultimi anni e si sono fatti disastri) e da mezzi d'informazione indipendenti e seri, non lottizzati né di proprietà degli attori politici.
Sperare che certe cose le dia una legge elettorale è come chiedere a un tostapane di risolvere una complicata equazione: semplicemente, non è lo strumento adatto.

sabato 17 agosto 2013

Figli delle stelle

Era l'estate del 1977, e nelle discoteche e sale da ballo italiane imperversava il brano di Alan Sorrenti menzionato nel titolo, facendo cantare a tanti giovani italiani "Noi siamo figli delle stelle". La cosa più notevole è che l'artista, probabilmente senza saperlo, ha menzionato una comprovata verità scientifica. 


Per capire di cosa sto parlando, darò prima po' di nozioni basilari di chimica fisica. Come è noto, i mattoni fondamentali del nostro mondo sono gli atomi: essi sono composti da un nucleo di protoni, caricati positivamente, e neutroni, non carichi elettricamente, attorno a cui si trova una nube di particelle, gli elettroni, dalla carica negativa; protoni ed elettroni sono generalmente in numero uguale, e la loro quantità caratterizza il tipo di atomo. Le sostanze formate da atomi di una singola varietà sono dette elementi chimici, e se ne sono osservati 96 in natura e 22 sono stati prodotti in laboratorio; essi inoltre, combinandosi nei modi più disparati, formano tutto ciò che conosciamo: ad esempio, l'idrogeno e l'ossigeno, due elementi chimici, si combinano per formare l'acqua. Tutto quello che ci circonda, anche noi esseri umani, è formato dagli elementi chimici: senza di essi, non ci saremmo.
Un francobollo sovietico dedicato ad Einstein
 ed alla sua più celebre formula
Noi diamo per scontata la loro esistenza, eppure ossigeno, carbonio, azoto, tutti elementi chiave per la vita, non sono nati con l'universo. Subito dopo il Big Bang infatti l'universo primordiale era composto di sola energia, che con il raffreddamento dello spazio ha cominciato a trasformarsi in materia (secondo la relazione E=mc^2 di Einstein che lega l'energia alla materia), formando gli atomi di idrogeno, composti da un protone e da un elettrone, e di elio (due protoni, due neutroni e due elettroni), ma solamente questi: da dove vengono allora tutti gli altri 116 elementi che oggi conosciamo?
La nebulosa del Granchio, formata dai resti della
supernova SN 1054. Fonte: ESA/NASA.
Qui entrano in gioco le stelle: esse sono dei conglomerati enormi di materia, che proprio per la loro massa innescano delle reazioni in cui i nuclei si fondono, generando altri elementi chimici e una notevole quantità di energia. Grazie a questo processo, sono giunti sul nostro pianeta gli elementi fino al ferro (26 neutroni e 26 protoni), e la luce e il calore del nostro Sole, provenienti da questa fonte, forniscono l'energia per tutti i processi, compresi quelli vitali, che avvengono sulla nostra Terra. 
Mancano però ancora 92 elementi chimici all'appello, e alcuni di essi molto importanti: molti metalli, come quelli preziosi, il nichel, il piombo, il mercurio, il cromo per i paraurti e i cerchioni delle macchine dei tamarri, ma anche lo zinco, importante per molti processi vitali nel nostro organismo. Ancora una volta però le stelle forniscono la soluzione: sto parlando delle supernovae, che sono tra le più immani esplosioni nel nostro universo, e costituiscono la fase finale di alcuni tipi di stelle, quelle più grandi, che collassando su se stesse prima dell'esplosione finale generano tutti gli altri elementi che una stella normale non riesce a produrre e che vengono sparsi al momento della deflagrazione.
È da poco passato il periodo di San Lorenzo, in cui i nostri occhi rivolti verso il cielo cercano di trovare una stella cadente per poi esprimere un desiderio. Questo fenomeno è dovuto al passaggio del nostro pianeta attraverso i detriti lasciati da una cometa, che attratti dalla gravità esercitata dalla Terra passano attraverso la nostra atmosfera incendiandosi. Il suo fascino è innegabile, a prescindere dalla credenza legata ai desideri: l'osservazione dei cielo notturno, così ammaliante nella sua infinità, cattura tutti prima o poi almeno una volta nella vita. A me piace pensare che ciò che ci fa provare un brivido non è solo la bellezza di tale spettacolo, ma anche il legame profondo che lo lega a noi: gli elementi che ci compongono, il nostro infinitamente piccolo, vengono da quell'infinitamente grande che abbiamo sopra le nostre teste ogni notte, e in quanto figli delle stelle, ci emozioniamo nel contemplare i nostri genitori.
E proprio in onore delle supernovae il mio saluto oggi è con una canzone degli Oasis, che i miei vecchi compagni delle superiori Alan e Francesco (il secondo però, come da tradizione scolastica, lo chiamavamo per cognome, Ariis) cantavano dal sedile dietro al mio ad ogni spostamento in corriera durante la gita di terza in Toscana: per merito (o colpa) vostro (o vostra) ho imparato ogni canzone dell'album (What's the Story) Morning Glory, compresa questa per l'appunto, Champagne Supernova. Se mai leggerete questo post, a voi va un caro saluto, e un grazie di non essere stati fan delle Spice Girls.

venerdì 16 agosto 2013

Servi e cortigiani

Discorso sulla servitù volontaria di
Étienne de la Boétie, nell'edizione
da me letta.
Qualche tempo fa, quando ancora vivevo a Zurigo, comprai dalla mia libraia preferita il libro raffigurato qui a lato di Étienne de la Boétie, intitolato Discorso Sulla Servitù Volontaria. Ne avevo sentito parlare perché in questo testo si affermava la tesi che il miglior alleato dei tiranni o dei poteri oppressivi in genere sono proprio i cittadini vessati, che sembrano quasi desiderare un tale stato, e che loro stessi con il semplice rifiutare le loro catene possono liberarsi.
Poi il compagno Smarmello, incuriosito da questa riflessione, me lo chiese in prestito e io fui ben felice di darglielo, anche se avevo appena cominciato a leggerlo: in fondo, pensai, ne ho altri libri da leggere, e quando mi sarà restituito lo finirò. Ma poi, appunto, fui assorbito da altre cose, e anche se il libro mi fu restituito subito non lo ripresi più in mano. Questo fino a due giorni fa.
Il testo è molto breve: nell'edizione in mio possesso consta di meno di 60 pagine, se si esclude la prefazione del mio corregionale Flores D'Arcais (sono pochi i friulani famosi, lasciatemeli citare quando posso :D), e si lascia leggere abbastanza facilmente, anche se le sue pagine sono dense di contenuti.
Il libro parte con la tesi sopra esposta: la capacità di opprimere che hanno i potenti viene data loro proprio da chi poi viene asservito, e di qui la raccomandazione dell'autore: "Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi". Questa idea può sembrare molto azzardata, o quanto meno ingenua, perché nessuno penserebbe che sia così facile liberarsi di un qualche potere autoritario, eppure è la base dell'indipendenza dell'India: il suo padre fondatore Mahatma Gandi, con le sue manifestazioni pacifiche, in primis la "Marcia del Sale" con la quale andò contro il monopolio britannico ad estrarre il sale indiano, sconfisse il potente occupatore coloniale. Già da questo si può comprendere quanto questo testo, pur nella sua brevità, contenga delle tesi geniali.
L'autore poi continua descrivendo quanto è profondo l'abbruttimento dell'uomo schiavo, specie se confrontato con lo stato di libertà, da de la Boétie ritenuto naturale (associandosi così al filone del "buon selvaggio", il cui principale esponente fu forse Rousseau), e da questo stupore si chiede quali possano essere le ragioni per cui l'essere umano, libero per natura, possa accettare di essere asservito. Ma attenzione, per de la Boétie la libertà non è un semplice poter fare ciò si vuole, ma viene dall'uguaglianza di tutti e di ciascuno: siamo liberi in quanto tutti uguali. Allo stesso modo il potere oprressivo non è solo quello di un tiranno, ma anche quello di una dirigenza democratica che, troppo attaccata al potere, diventa autoreferenziale e degenera per poterlo mantenere.
La televisione può renderci come i maiali.
Tra le ragioni per cui si accetta l'asservimento egli cita in primis l'abitudine alla schiavitù, che col tempo fa dimenticare quanto sia prezioso l'essere liberi, e identifica proprio nella memoria storica un efficace antidoto contro tale degenerazione. Egli però si rende conto che tale obiettivo è difficile, specie perché l'oppressore utilizza numerosi modi per sedurre chi vuole soggiogare, ricordando come nell'antichità romana c'erano gli spettacoli dei gladiatori, e che spesso chi voleva guadagnare un potere assoluto come primo passo assurgeva a difensore autentico del popolo, per il quale, e questo è uno dei due momenti negativi del libro, l'autore non ha sempre parole clementi, accentuandone gli istinti più bassi. Qui sta però la modernità del testo: è facilissimo applicare queste parole all'ultimo trentennio, in cui Silvio Berlusconi ha creato un modello culturale con le sue televisioni (le arene circensi dei giorni nostri) che ha sedotto i cittadini e si è presentato come uno del popolo, specialmente nei suoi vizi (l'amore deviato per le donne, il sesso, la ricchezza, ad esempio), a cui la sinistra purtroppo ha contribuito non sapendo contrapporre un'alternativa ideale e culturale, prima che di governo, efficace.
Tali riflessioni però non soddisfano a pieno de la Boétie, che ancora non intravede perché la tirannia sia così forte, fino a quando non arriva con quella che secondo me è la sua tesi più azzeccata: se accettiamo il potere oppressivo e rinunciamo volentieri ad uno status di cittadini liberi è perché ne diventiamo noi stessi partecipi. Il tiranno ha diretto controllo solo su alcune decine di persone al massimo, ma queste poi esercitano la loro quota di potere su altri sotto di loro e così via, in una perversa piramide in cui ciascuno risulta assai gratificato dal fatto di poter privare qualcuno di qualcosa e non si rende conto, dall'altro verso, che ciò che gli viene sottratto è maggiore di quanto egli ruba agli altri. Quando ho letto queste parole mi è subito venuto da pensare all'Italia: chi vota chi esalta l'evasione fiscale spesso lo fa perché egli stesso, nel suo piccolo, non non paga le tasse. Uno scontrino non emesso, un lavoro di riparazione domestica per il quale non si chiede la fattura, sono tutte piccole sottrazioni a danno degli altri cittadini, che dalla mancanza di tasse versate subiscono una mancanza di servizi pubblici efficienti. Insomma, sto parlando della miopia di chi è convinto che, ad esempio, ottenere un posto tramite una raccomandazione gli permetta di guadagnarci sulle spalle di qualcun altro, senza rendersi conto che queste pratiche danneggiano anche lui, facendo diventare medici degli incompetenti, professori degli analfabeti, capitani d'industria dei figli di papà che non sanno cosa voglia dire lavorare. 
Un'azzeccata riflessione di Altan sui leccapiedi.
Il finale del libro, poi, è dedicato ai cortigiani, a coloro che credono che, leccando il culo al padrone di turno, ci guadagnano in prima persona, senza sapere che nessuno è durato tanto a lungo basandosi esclusivamente sul totale asservimento al padrone e alla soddisfazione dei suoi vizi. Anche qui il confronto con l'Italia attuale, con consigli di amministrazione pieni di lacché senza alcuna capacità, gruppi di ricerca universitari colmi di servi che non osano esprimere le proprie idee ma obbediscono pedissequamente al barone di turno, amministrazioni pubbliche farcite di incompetenti leccapiedi e partiti proprietari con una classe dirigente che in realtà sembra più la corte di un satrapo (e non mi riferisco solo al PDL), mi è venuto immediato.
In conclusione, il libro mi è piaciuto, per le sue tesi attuali, ma ha anche un paio di punti deboli. Oltre al citato disprezzo per il popolo, che svilisce il significato di una lotta per l'uguaglianza se si pensa poi di combattere solo a nome di una massa di utili idioti, il testo non propone alcuna soluzione per risolvere la tendenza alla volontà di dominio di ciascuno. Anche D'Arcais, nella sua introduzione, nel parlare di "Un sistema omnipervasivo di incompatibilità giuridica tra cariche e funzioni, politiche, finanziarie, mediatiche, che le rendano costituzionalmente rivali" sembra configurare, a essere malvagi, una società in cui il desiderio di controllo passi da verticale a orizzontale. Insomma, usare un istinto umano naturale, anche se negativo, e convogliarlo per il bene comune, ma questa interpretazione forse è troppo ingenerosa nei suoi confronti: in fondo quello che propone è una società in cui, più che un controllo despotico, si immagina un controllo diffuso come vero deterrente dei mali sociali e delle degenerazioni autoreferenziali dei potenti sopra citate. D'altro canto, questo ragionamento sulla volontà di sopraffare è alla base di tutte le tesi anarchiche sul principio di autorità. 
Inoltre, de la Boétie, nel dire che sarebbe facile liberarsi delle catene dell'oppressore, pur ricordando come l'abitudine a servire renda difficile fare ciò non è consapevole a pieno del problema che invece Kant ha espresso egregiamente nella sua lettera intitolata "Che cos`è l'illuminismo?": "Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza - è dunque il motto dell'illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall'eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l'intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori." In sintesi, è molto più facile accettare passivamente una morale precotta e comportarsi secondo una condotta decisa da altri che elaborarne una propria.
Voglio però concludere citando la cosa che mi piace di più del testo: il suo continuo riferirsi alla storia, in particolare al passato greco-romano, come fonte di conoscenza per comprendere la società moderna ed evitare gli errori già ripetuti, l'historia magistra vitae, la storia come maestra di vita, per cui conoscere il passato aiuta a capire il presente e progettare un futuro migliore.
P.S.: Ai lettori che sono arrivati in fondo, prometto che il prossimo post sarà più leggero: parlerò di scienza, ma cercando di farlo in maniera semplice e affascinante. Non aspettatevi però tette e culi ;)

giovedì 15 agosto 2013

Amadeus

Oggi farò un'invasione nel campo del caro Smarmello e parlerò di un film. Ieri sera su La7 hanno trasmesso "Amadeus" di Miloš Forman, dedicato alla vita del grande compositore Mozart e vincitore di 8 premi Oscar.
Ovviamente, non avendo studiato storia del cinema, non mi occuperò di importanti fattori come "il montaggio analogico" o "la carrozzella del bambino", che invece disseminano le critiche cinematografiche più nobili (giuro che ho visto menzionati tali particolari non solo nella scena tratta da "Il secondo tragico Fantozzi" nel video sottostante, ma anche nel libro che mia sorella stava studiando per un esame).


Concentrerò la mia attenzione su tre temi che emergono dal film: il rapporto Mozart-Salieri, il talento musicale di quest'ultimo e la vita da "rockstar" di Mozart. 
Della loro rivalità artistica la voce dedicata su Wikipedia dice praticamente tutto. In sintesi, è stato probabilmente un caso montato ad arte, specie se si pensa che Salieri ebbe tra i suoi allievi proprio un figlio di Mozart, ma anche altri episodi sembrerebbero ridimensionare tale credenza. Il principale indizio a "discolpa" di Salieri sta nella mancanza di movente: finché Mozart fu in vita il compositore italiano ebbe molto più successo del salisburghese, e perciò non si capirebbe perché dovrebbero avere credito le voci che vorrebbero Salieri assassino di Mozart. Tale tesi, messa nero su bianco per la prima volta in un suo poema da Puškin, è stata poi presa anche da Forman per il suo film.
Questo chiarimento è importante perché tale leggenda parte da un presupposto: Salieri era un mediocre di successo, e quindi non poteva sopportare che uno come Mozart lo oscurasse con il suo talento. Salieri era un bravo compositore, e ha scritto ottimi brani, come ad esempio quello mostrato qui sotto, cantato dalla splendida Cecilia Bartoli.


Però... Mozart era Mozart: un genio musicale rivoluzionario per ogni tempo, figurarsi per il suo. Salieri semplicemente era la piena espressione del gusto della sua epoca, Mozart invece era troppo avanti. Sua è stata la prima sinfonia in modo minore (la K183 in Sol minore, tra l'altro usata nell'apertura del film), era tra i pochi (se non l'unico) contro la tendenza a rappresentare solo opere su miti greco-romani, per non parlare poi delle scelte ritmiche o musicali, per le quali mi viene in mente la sua ultima opera incompiuta, il Requiem in Re Minore K626: le scelte strumentali dell'Introitus assolutamente originali, la ripresa di alcuni espedienti musicali Haendeliani come la contrapposizione tra massa corale e strumentale, e potrei andare avanti a lungo... Da un certo punto di vista questo suo anticonformismo si rifletteva anche nella sua vita. Per esempio, il rapporto con sua moglie Constanze era molto vivace, i due si cornificavano tantissimo ma una grande intesa sessuale li faceva restare assieme. Ma non c'era solo questo: è stato il primo musicista ad avere la pretesa di mantenersi esclusivamente con la sua musica, non era bravo ad insegnare musica e mal lo tollerava (basta pensare che la famosa Sonata per Pianoforte K545, composta per una sua allieva, riporta la dicitura "Per principianti"), e sicuramente ha dissipato buona parte dei suoi guadagni non in investimenti immobiliari: morì talmente povero che fu sepolto in una fossa comune, e chi va a visitare la sua casa viennese resta deluso da quanto è vuota, avendo egli venduto nel tempo tutti i suoi oggetti per sopravvivere. Tuttavia egli non era solo un godereccio: lavorava duro per comporre le sue musiche, e ne ha prodotte tante, più di 600 in 35 anni di vita. Circa venti ogni anno, una media simile a quella di Bach, tanto per dire.
Il film però è molto potente, e riesce a coinvolgere lo spettatore anche con un saggio utilizzo della musica di Mozart lungo il suo svolgimento: si pensi ad esempio all'utilizzo del "Lacrimosa" proprio nella scena finale, in cui il compositore viene portato alla fossa comune. Il maggior pregio del film è che nessuno, dopo averlo visto, può dire di non amare Mozart, e se un film riesce ad avvicinare al genio e alla bellezza della musica classica, può solo avere la mia massima approvazione.
E per continuare la tradizione di prendere commiato con un video musicale, ecco a voi una delle composizioni di Mozart tra le mie preferite: l'aria "Voi che sapete" tratta da "Le Nozze di Figaro", che ho ascoltato tantissimo, specie alla mia prima cotta. Ah, quanto sono romantico... :P

martedì 13 agosto 2013

C'è posto per la storia nelle scuole?

Il monumento ossario di Sant'Anna di Stazzema
L'alba del 12 agosto del 1944 la sedicesima divisione volontari delle Waffen SS di fanteria meccanizzata "Reichsführer", accompagnata da alcuni fascisti collaborazionisti che fecero da guide, entrò nel paese di Sant'Anna di Stazzema, in provincia di Lucca. Nelle abitazioni c'erano solo donne, anziani e bambini, sicuri che non sarebbero stati in alcun modo toccati dai militari tedeschi: gli uomini, temendo eventuali deportazioni, si erano rifugiati nei boschi. I soldati invece rastrellarono coloro che erano rimasti in paese, facendo 560 morti, di cui 130 bambini (la più giovane, Anna Pardini, era nata da soli venti giorni). 
Il tribunale militare di La Spezia nel 2005 condannò all'ergastolo per questo massacro 10 ex SS, sentenza divenuta definitiva con la ratifica della cassazione nel 2007. La procura di Stoccarda, invece, il primo ottobre archiviò l'inchiesta di strage nazista con il motivo che non era possibile accertare il ruolo di ogni singolo militare; inoltre, non si poteva sapere se la fucilazione dei civili fosse un atto premeditato: insomma, poiché non si sapeva quali individui avessero ucciso i 17 imputati, nessuno di loro fu condannato. Non è mio compito valutare la bontà della suddetta decisione, però lo trovo un grave atto di rimozione storica. Ed è appunto la cancellazione del passato, l'argomento principale di questo mio post.
Già in un mio precedente intervento lamentai la scarsa memoria storica del nostro paese, ma ora voglio cercare di discuterne una delle possibili cause: l'insegnamento della storia nelle nostre scuole, in particolare di quella degli ultimi cento anni. Le responsabilità sono le più varie possibili: le riduzioni sull'orario; le indicazioni nazionali per l'insegnamento di tale materia; la cattiva organizzazione nelle scuole, per cui l'insegnante spesso non riesce, tra gite scolastiche, feste e altre attività, a pianificare le lezioni; la conoscenza non sempre accurata dei fatti del ventesimo secolo e l'esigenza di una maggiore accortezza nel trattare gli eventi più recenti (si pensi alle polemiche sui militari italiani di El Alamein o alle proteste leghiste per la festa del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia); tutti ostacoli difficili da affrontare.
Eppure non è concepibile che nelle scuole superiori italiane sia un'eccezione positiva riuscire a trattare argomenti della seconda guerra mondiale, e che più spesso ci si fermi al primo conflitto mondiale, per di più trattandolo frettolosamente: come può qualcuno comprendere ciò che succede intorno a lui se non ha almeno una vaga idea dei fatti degli ultimi 50/100 anni? Secondo uno studio di De Mauro del 2008 nel nostro paese appena un quinto della popolazione ha gli strumenti di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi nella società contemporanea, e la nostra scuola al momento non riesce, per responsabilità che purtroppo sono da attribuire a tutti i livelli, a invertire la tendenza: basta guardare i pessimi risultati dell'Italia nei test internazionali del programma PISA (Programme for International Student Assessment, Programma Internazionale per la Valutazione degli Studenti) del 2003-2006 e del 2009, dove l'Italia risulta sistematicamente sotto la media dei paesi sviluppati e superiore solo a quelli in via di sviluppo. Più preoccupante poi è stata la reazione dei mondi politico e scolastico. Mentre in Germania è stata avviata una seria discussione che ha portato a dei cambiamenti nel mondo della scuola e una risalita di cinque posti nella graduatoria PISA dal 2003 al 2006, nello stesso arco di tempo insegnanti, ministero e politici italiani hanno solo saputo parlare di ottimizzazione delle risorse (= tagli indiscriminati, tradotto dal politichese) o di scarsa validità del test PISA, che presuppone una formazione di tipo nord europeo e non tiene conto delle peculiarità del sistema scolastico italiano.
In questo marasma l'ignoranza della storia del ventesimo storico è assolutamente coerente: che futuro può avere il nostro paese se le sue fondamenta, fatte di competenze, capacità di interpretare la realtà e conoscenza di quest'ultima, sono così scadenti?
Speriamo solo che non si arrivi alla situazione descritta da Caparezza nella canzone del video qui sottostante, con cui prendo congedo da voi lettori: alla prossima.

lunedì 12 agosto 2013

Siamo sicuri che la Terra giri intorno al Sole?

Dopo la condanna, Silvio ha bisogno di un po'
di evasione...
No, non preoccupatevi: non mi sono messo al computer dopo aver bevuto 10 pastis (anche perché mi manca uno Zurota che mi faccia compagnia), né mi sono iscritto al un corso di "Astrologia Siderale e Geocentrica", né ho deciso di buttare al macero i miei studi in fisica. In realtà la domanda è assolutamente sensata, ed è ancora più ragionevole chi mi risponde "Non è detto".
Uno dei concetti più importanti della fisica è che non basta dire che un corpo si muove, ma bisogna anche dire rispetto a cosa: sto parlando della relatività del moto. Per mostrare che non mi sto inventando niente, immaginate la seguente situazione. Siete in stazione, e dopo aver salutato vostra madre, a cui avete fatto visita per qualche giorno, state tornando a casa col treno, che parte non appena le sue porte si sono chiuse, frapponendosi tra voi e lei: in quel momento, per vostra madre siete voi che vi state muovendo, mentre dal vostro punto di vista è lei che si sta allontanando. A chi obietta che noi sappiamo benissimo che è il treno a muoversi io rispondo che in realtà affermando ciò compiamo una scelta ben precisa, attraverso la quale è più facile descrivere la realtà: sarà più semplice descrivere un mondo in cui tutto si muove e solo noi siamo fermi o piuttosto il contrario?
Niccolo Copernico, versione italianizzata
del nome originale polacco Mikolaj Kopernik.
Il motivo per cui la rivoluzione copernicana (e fidatevi di uno che ha frequentato un liceo intitolato proprio a Copernico) ebbe successo è proprio che permette una descrizione più facile dei moti degli oggetti nel sistema solare. Se guardiamo le cose dal punto di vista del nostro pianeta (in fisica si direbbe "se siamo solidali con esso"), tutti gli altri corpi celesti come Marte e Giove e la fascia di asteroidi compresi tra questi due pianeti descrivono strane traiettorie: per un po' vanno in una direzione, in seguito la cambiano improvvisamente per poi ritornare a muoversi nel verso originario, descrivendo delle serie di piccole circonferenze centrate su una più grande (rispettivamente, gli epicicli e i deferenti). Questa e il corpo con cui si decide di essere solidali sono le uniche due differenze tra questi sistemi: basta pensare, ad esempio, che per descrivere la posizione delle altre stelle è più semplice mettersi in un sistema geocentrico, ossia riferito al nostro pianeta.
Ho in precedenza affermato che questa è la cosiddetta "relatività del moto", ossia il fatto che non basta dire che un oggetto si muove ma serve anche stabilire rispetto a cosa. Tale concetto include anche il fatto che non c'è niente in linea di principio che possa farci scegliere un riferimento o un altro. Questo concetto non è nuovo, come potrebbe credere qualcuno che, alla parola relatività, pensa immediatamente al grande Einstein: quest'ultimo l'ha solo esteso a quantità come lo scorrere del tempo, le distanze e le masse. Isaac Newton, ad esempio, era conscio di questo problema, e riteneva che ci potesse essere un sistema di riferimento "assoluto", affermando così una grande castroneria: d'altronde, sempre per citare lui stesso, noi siamo nani posti sulle spalle dei giganti e per questo vediamo più lontano di loro, e noi sappiamo oggi che i sistemi assoluti non esistono proprio perché c'è stata gente che prima di noi ha affrontato il problema.
Zenone di Elea.
Il concetto di relatività del moto ha però un'origine ancora più antica. Il primo a citarlo fu Zenone di Elea, che 2500 anni fa, in uno sperduto paesino dell'attuale Cilento (zona da visitare, se non l'avete già fatto), aveva un piccolo problema: dimostrare che il suo maestro, Parmenide, avesse ragione nel sostenere che niente si muove.
Il compito, come potrete capire, era decisamente arduo, e per questo Zenone elaborò i suoi celebri paradossi. Con due di essi egli anticipò una fondamentale deduzione alla base della definizione di infinito data 2400 anni dopo dal grande matematico Cantor, e con gli altri quattro intendeva proprio obiettare l'esistenza del movimento. In particolare, quello sui corridori nello stadio afferma che due atleti che per uno spettatore si muovono uno incontro all'altro a 20 km/h vedono l'altro sportivo muoversi a 40 km/h, che altro non è che il concetto di relatività del moto: per Zenone, questa era una dimostrazione che esso non esiste, essendo diverso a seconda di chi lo guarda. Pur nella loro erroneità, si può comprendere come questi paradossi, che anticipavano molte scoperte della matematica e della fisica moderna, siano stati definiti da Bertrand Russell "smisuratamente sottili e profondi".
Il bello però della relatività del moto è che essa ci dà una lezione anche per la vita di tutti i giorni. In particolare essa fornisce un prezioso insegnamento per quando ci confrontiamo con idee e opinioni diverse dalle nostre: prima di etichettarle come errate, cerchiamo di capire come appaiono le cose dal punto di vista del nostro interlocutore, poiché è possibile che a seconda dell'osservatore una stessa cosa possa assumere molte forme. Già Protagora di Abdera, altro filosofo greco (si capisce che sono innamorato dell'antichità greco-romana, in particolare della prima?), intuiva che
L'uomo è la misura di tutte le cose di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono.
Questa è una lezione di tolleranza di cui dovremmo fare tesoro: si eviterebbero un sacco di scontri e conflitti, e forse il mondo sarebbe un posto migliore.

sabato 10 agosto 2013

IMU: quando rimuovere una tassa non è necessariamente un bene.

Oggi il Ministero dell'Economia e delle Finanze (MEF) ha pubblicato sul proprio sito un rapporto contenente nove ipotesi di modifica sulla tassazione degli immobili (IMU e TARES). Non parlerò qui delle reazioni politiche che tale documento ha suscitato: il solito balletto tra il PDL, che vuole che sia abolita per la prima casa perché così guadagnerà parecchio consenso elettorale, e PD, che invece non la ritiene una priorità proprio perché non ne guadagnerebbe neanche un voto, sinceramente non mi interessa.
Mi voglio soffermare sul documento in sé, che ammetto di aver letto in grande velocità, anche perché composto di 100 pagine, un vero e proprio mattone (sempre a proposito di case) che però, anche se sfogliato con un'attenzione minima, fornisce molte informazioni importanti.
Il sommario delle nove proposte (preso dal sito di Repubblica) include:

1) Esenzione totale dall'Imu per l'abitazione principale. Circa quattro miliardi.
2) Incremento non selettivo della detrazione di base dell'Imu prevista per l'abitazione principale. Costa da 1,3 a 2,7 miliardi a seconda dell'aumento della detrazione.
3) Rimodulazione selettiva dell'esenzione dall'Imu sull'abitazione principale (con diversi parametri: in funzione del valore dell'immobile; parametrata al reddito; in funzione della condizione economica del nucleo familiare, misurata attraverso l'Isee; applicazione dei valori Osservatorio del mercato immobiliare per la determinazione della base imponibile). Vale da 1 a 2,3 miliardi a seconda della rimodulazione scelta.
4) Interventi sull'Imu relativa all'abitazione principale contestuali ad altri tributi (contestuale eliminazione/riduzione della deducibilità ai fini Irpef delle rendite abitazione principale e reintroduzione totale/parziale in Irpef dei redditi degli immobili non locati; rimborso dell'Imu sull'abitazione (integrale o parziale) attraverso l'attribuzione di un credito di imposta (o una detrazione); esenzione dall'Imu per l'abitazione principale e contestuale rimodulazione della Tares relativa ai servizi indivisibili). In questo caso si ipotizzano anche recuperi di gettito fino a circa 2 miliardi fino a 4,3 miliardi.
5) Deducibilità dell'Imu solo per le imprese. Costerebbe 1,2 miliardi.
6) Restituzione ai Comuni del gettito derivante dagli immobili ad uso produttivo classificati nel gruppo catastale D. Costerebbe 4,6 miliardi, ma senza benefici diretti per imprese o famiglie.
7) Abolizione dell'addizionale comunale all'Irpef e contestuale incremento dell'Irpef. Con una perdita di gettito di circa 3,4 miliardi, ma anche in questo caso senza benefici diretti per imprese o famiglie.
8) Derubricazione della revisione dell'Imu relativa all'abitazione principale a un problema di finanza locale. Si punterebbe a accrescere l'autonomia finanziaria dei Comuni, potenziando i margini di discrezionalità sul fronte della Tares, dando loro la possibilità di introdurre una service tax per la copertura dei servizi indivisibili (in ipotesi, fino a un massimo di gettito potenziale dell'ordine di 2 miliardi).
9) Abolizione della prima rata dei versamenti Imu sospesi ai sensi del decreto 54 del 2013. Costa 2,4 miliardi.

Le ipotesi 1 e 2 sono "piatte", nel senso che non tengono conto di nessun altro parametro (reddito, valore catastale, ecc.) ma si limitano o a cancellare del tutto o a diminuire alla stessa maniera (di fatto o praticamente) la tassazione per tutti. Queste due soluzioni sarebbero molto regressive, ossia darebbero maggiori benefici a chi già possiede un reddito più cospicuo: le tabelle alle pagine 13 e 19 del documento del MEF confermano con dei numeri questa affermazione. Questo accade perché, come mostra il grafico a pagina 14, vi è una correlazione tra reddito personale e valore della propria casa: ovvio, risponderebbe qualcuno, che più uno guadagna più può permettersi una casa migliore e quindi più costosa. Vi sono varie ragioni per cui un tale approccio secondo me è da evitare. Per cominciare, per la nostra Costituzione "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva." Ma senza scomodare i massimi sistemi si comprende che in un periodo come questo un'azione di governo efficace dovrebbe dare un po' di respiro soprattutto a chi è più soffocato dalla crisi e non a chi ha già i mezzi per andare avanti in maniera migliore. E poi non sono il solo a parlare di ragioni di equità: oltre al MEF, che lo fa in questo documento, ci pensa addirittura il Fondo Monetario Internazionale, che non è proprio una filiale dell'internazionale comunista.
I punti 3 e 4 sono più elaborati e quindi non mi azzardo a dare una mia opinione sul dettaglio, ma mi permetto solo di osservare una cosa: in base al citato principio di progressività sarebbe meglio legare l'IMU al reddito o all'ISEE, un parametro più complicato che tiene anche conto del patrimonio a disposizione (mobile e immobile) e del nucleo familiare e delle sue caratteristiche. Questo andrebbe bene in un paese ideale ma non, purtroppo, in Italia, dove l'evasione fiscale è elevata: chi non dichiara tutto il proprio reddito finirebbe per essere doppiamente avvantaggiato, perché pagherebbe meno tasse sia su di esso sia sul suo patrimonio (l'IMU è una tassa patrimoniale). Una seria riforma fiscale volta ad ottenere una riduzione del "nero" (ad esempio, rendendo vantaggiosa l'emissione della fattura per almeno una delle due parti nel caso della fornitura di servizi) è perciò necessaria prima di una rimodulazione dell'IMU basata sul reddito.
La quinta proposta è più interessante, perché consentirebbe di liberare risorse che potrebbero essere reimpiegate nel circuito produttivo: se un'impresa non deve pagare l'IMU sul suo capannone, può utilizzare questi soldi per altri fini, come nuovi macchinari, migliorie nella filiera produttiva, aumenti salariali (essere ottimisti non costa nulla...).
La sesta e la settima ipotesi, non avendo alcun effetto sul contribuente, sono solo in apparenza meno rilevanti. Esse comporterebbero lo spostamento di parte del gettito fiscale dallo stato ad altri enti (regioni o comuni) promuovendo un'effettiva responsabilizzazione fiscale di questi ultimi, che raccoglierebbero direttamente alcuni dei fondi con i quali vanno poi ad erogare i servizi per i cittadini, che potrebbero facilmente giudicare il risultato: ad esempio, se gli autobus costano tanto e funzionano male, io elettore posso decidere di non votare nuovamente l'amministrazione che ha fatto le scelte che ritengo sbagliate. L'ottava proposta è più promettente perché, oltre a conseguire l'obiettivo appena menzionato, risolverebbe l'anomalia di due tasse simili (entrambe sono sugli immobili).
L'ultimo punto è per me incomprensibile: viene abolita la tassa solo per quest'anno, ma poi per il futuro tale misura non varrebbe. Si rinvia quindi all'anno prossimo ogni decisione su un'eventuale riforma fiscale, che invece è secondo me fondamentale.
La mia opinione? Io adotterei un miscuglio delle ipotesi dalla 5 alla 8: queste permetterebbero lo spostamento di risorse a fini produttivi e una maggiore responsabilizzazione degli enti locali, quelli controllabili direttamente dal cittadino più facilmente. 
Non sono invece molto favorevole alle ipotesi che riguardano le abitazioni. Si è visto che rimuovere l'IMU sulla prima casa non comporta grossi benefici ai meno abbienti tra i possessori di una casa, mentre io cercherei altre strade per dare un po' di respiro sia a costoro sia a chi vive in un'abitazione che non è di sua proprietà, persone presumibilmente ancora più povere (per la correlazione tra valore della casa e reddito dimostrata in precedenza) e che non trarrebbero vantaggio in alcun modo da interventi sull'IMU. Un riordino delle agevolazioni, che tenga possibilmente conto del nucleo familiare, sarebbe invece destinato a tutti, anche a chi, avendo un reddito troppo basso, già non paga tasse su di esso.
Vogliamo vedere invece che il governo Letta, in nome dell'andreottiano "tirare a campare per non tirare le cuoia", potrebbe preferire la nona proposta?
Concludo con un'ultima domanda: non sarebbe bello avere una classe politica che, partendo da un tale documento, lo commenti nel merito, elabori delle proposte su questo tema e cerchi di spiegarle con parole semplici (più delle mie) ai cittadini?
Per non pensarci, mi congedo con una canzone dedicata al sogno piccolo borghese per eccellenza: la casa in campagna.