venerdì 28 febbraio 2014

Le espressioni private di senso della politica - Il buon senso

In tempi di crisi della politica, specie in Italia, uno dei fenomeni più rilevanti e associati a tale degrado è l'autoreferenzialità della classe dirigente, che si riflette in particolare nella vacuità delle parole e delle tematiche che sono volta per volta oggetto di discussione.
A questo fenomeno già presente in Italia da almeno vent'anni si è sovrapposto il lato deleterio della comunicazione rapidissima dei social network, che richiede espressioni brevi ed incisive in grado di catturare l'attenzione di un pubblico sempre più disabituato a una riflessione approfondita, per tutta una serie di cause che non sono però argomento di discussione di questo post.
Quello che interessa in queste righe non è criticare il cambiamento della comunicazione, ma l'effetto combinato che esso ha con la povertà delle proposte politiche circolanti. Nel dibattito pubblico si è andata generando una grande quantità di espressioni, di parole chiave, di concetti che apparentemente dovrebbero sottintendere un intero mondo, ma che, non venendo dalla semplificazione di una riflessione profonda ma essendo nate esclusivamente per raggiungere un pubblico ampio, spesso peccano di banalità e semplicismo.
Parole come riforme, buon senso, fare, concretezza, sono state ripetute fino all'ossessione nel linguaggio della nostra classe dirigente, perdendo così ogni significato ed assumendo solo il ruolo di vuoti contenitori che chiunque può usare per farsi bello: tali parole, che si presuppongono essere vincenti e condivisibili, diventano uno strumento di marketing piuttosto che dei concetti da trasmettere.
Su questo blog cercherò di analizzare alcune di esse, partendo da quella che ho recentemente discusso in una chat su Facebook con un mio conoscente: il buon senso.
Questo concetto viene usato in molti modi in politica: "Le nostre proposte sono di buon senso, a prescindere da destra e sinistra, perché in questa situazione di crisi tutti sanno cosa bisogna fare ma non lo si fa mai" è un concetto che, in formulazioni differenti ma simili, ho sentito da quasi ogni soggetto, sia esso il PD, Scelta Civica, Forza Italia, il Nuovo Centrodestra, ma anche il Movimento 5 Stelle, Fratelli d'Italia o altri: insomma, opposizione e governo sono accomunati da questo rifarsi a una presunta verità inconfutabile dalla quale derivano immediatamente le proprie proposte.
Quante volte si è sentito dire che "È buon senso abbassare le tasse", o "È buon senso ridurre gli sprechi" o "È buon senso combattere la corruzione" è così via?
Qui viene in aiuto la chat su Facebook menzionata in precedenza: nasceva da un opinione da me espressa sul giornalista Aldo Cazzullo, da me non apprezzato per quanto segue.

  • Steve Della Mora
    21/02/2014 17:59
    Steve Della Mora


    Perché è l'apoteosi di quella finta borghesia liberale che si appella al buon senso col solo scopo di demolire ogni alternativa che vada contro il mainstream neoliberista

Mi rendo conto di essermi espresso in maniera inutilmente verbosa e difficile, ma la sintesi data da uno dei membri della chat (non a caso conterraneo di Renzi, uomo fin troppo immediato quando comunica) è illuminante.

Ti farebbero mangiare la merda in nome del buon senso
Il buon senso non è una proposta, ma è usato per far passare qualunque idea, che diventa valida solo perché vi è appiccicata questa etichetta. Quando anche Mario Draghi dice "Padoan sa cosa deve fare, lo sanno tutti" uccide la politica, che per sua natura è confronto tra diverse proposte nate per risolvere i problemi della vita reale.
Il punto è che non esistono soluzioni in assoluto corrette, esse diventano tali solo in base alla visione che si ha della società (la cosiddetta ideologia, per usare una parola oggi non di moda ma che per me è bellissima): è più giusta una società dove si predilige un riequilibrio delle diseguaglianze o una che premi in tutto e per tutto il successo individuale, essendo quest'ultimo dovuto al duro lavoro? Per andare più nel concreto, abbassare le tasse non è una soluzione, ma è un obiettivo: la soluzione consiste nelle scelte che si fanno per coprire le minori entrate dovute al calo della tassazione in certi ambiti. Per esempio, per abbassare le tasse sul lavoro è giusto aumentare la tassazione in altri ambiti o tagliare alcune voci di spesa pubblica? E quali voci? La risposta dipende dal tipo di società che si ha in mente: non esistono soluzioni di buon senso, al limite obiettivi che lo rispecchiano.
La validità delle soluzioni proposte può essere data esclusivamente dal loro successo elettorale e dai risultati che si ottengono applicandole, ma non può essere determinata a priori, in nome di un presunto buon senso che santifica ogni cosa, anche la merda.
Gli effetti di questa trasformazione, che è la supposta morte delle ideologie, sono sotto gli occhi di tutti: senza una visione di una società alle spalle, cosa altro è la politica, se non un vuoto mantenimento degli equilibri esistenti e una spartizione di cariche e di influenza?

domenica 23 febbraio 2014

I libri de "La Spuma e lo Spritz": Marco Magini - Come fossi solo

Come fossi solo, il primo romanzo di
Marco Magini
Per non stufare i lettori di questo blog con le solite storie sulla politica, ho deciso di inaugurare (ma non garantisco che poi vada avanti) una nuova rubrica, dedicata alle mie letture.
Esordisco con una persona che conosco e che è amica della nostra associazione preferita, la Fabbrica di Zurigo, ossia con Marco Magini e il suo romanzo d'esordio Come fossi solo. Ma non è solo questa conoscenza personale ad avermi spinto a leggere il libro: che l'opera prima di uno sconosciuto venga pubblicata da un'importante casa editrice come Giunti, dopo aver ricevuto la menzione speciale nella finale del Premio Calvino 2013, non è cosa da poco. Insomma, se i professoroni dicono che il ragazzo ha fatto un buon lavoro, un qualche motivo dovrà pur esserci! Ora lui scrive romanzi mentre io scrivo su un blog da quattro soldi, ma voglio comunque provare a fare una recensione del suo libro, poi prendetela col beneficio d'inventario da doversi a una tale fonte...
Il libro, se non parlasse di fatti recenti, si potrebbe tranquillamente definire come un romanzo storico, ossia "è ambientato in un'epoca storica e intende trasmetterne lo spirito, i comportamenti e le condizioni sociali attraverso dettagli realistici e con un'aderenza (in molti casi solo apparente) ai fatti documentati" (dall'"Enciclopedia Britannica"). Lo spirito del libro e senz'altro questo, e più in particolare ha il fine rinnovare la nostra memoria storica (sempre troppo breve) sui fatti del Massacro di Srebrenica, il più grande atto di pulizia etnica e genocidio dai tempi della seconda guerra mondiale, svoltosi durante la guerra civile jugoslava.
Il racconto è tripartito, poiché la vicenda viene descritta da tre diversi punti di vista in prima persona, che si alternano nei vari capitoli del libro, ciascuno dei quali prende il nome da colui che narra la storia: Dirk, un soldato del battaglione olandese sotto l'egida dell'ONU che era di stanza a Srebrenica quando si svolsero i fatti, Romeo, uno dei giudici del Tribunale Penale Internazionale per l'Ex Jugoslavia dell'Aja, chiamato a giudicare uno dei partecipanti più marginali al massacro, ossia Drazen, il terzo protagonista, un serbo-croato cresciuto in Bosnia che si è arruolato più per garantire un reddito alla sua famiglia che per vera convinzione, veramente esistito e uno dei pochi ad essere stato condannato.
L'autore del libro, Marco Magini
E infatti quest'ultimo, pur essendo stato l'unico ad aver partecipato direttamente al genocidio, alla fine risulta quello che abbia maggiormente cercato di mantenere la sua umanità. I tre protagonisti, pur essendo presumibilmente delle persone normali (quando non con una grande carriera alle spalle come Romeo), alla fine, pur per motivi e in modalità diverse, si rendono conto troppo tardi della straordinaria tragicità dei fatti di Srebrenica da cui si ritrovano coinvolti, in un meccanismo che più volte l'arte ha mostrato: la spersonalizzazione a cui è soggetto chi si ritrova invischiato nei fatti di guerra, con la perdita della loro empatia o della capacità di giudicare correttamente le cose. Drazen sarà infatti l'unico a fare più tentativi per opporsi a quanto stava accadendo attorno a lui, prima di soccombere alla non-logica della guerra.
Marco ha quindi, con il suo romanzo, colto ancora una volta l'effetto più pesante della guerra, che finisce per sembrare banale a chi ve ne rimane esposto a lungo, un atto meccanico comparabile a tanti altri. Ma con la sua opera egli riesce anche a porre all'attenzione del pubblico odierno l'unico episodio bellico svoltosi in Europa dopo la seonda guerra mondiale, tragicamente così vicino a casa nostra (specie per me: la Jugoslavia era a 90 km da casa mia e sentivo dalla mia cameretta gli aerei che sarebbero andati a bombardare Belgrado nel 1998 per la guerra in Kosovo) e sul quale si è steso un velo di oblio. E un libro che aiuta alla costruzione di una memoria storica per me compie sempre un'opera meritoria di essere premiata, se non altro per la fatica che Marco ha compiuto nel suo lavoro documentale di conoscenza dei meccanismi del Tribunale e di lettura delle fonti sui fatti di Srebrenica, e in particolare sulla storia di Drazen. Ma fidatevi, è un libro che vale la pena di leggere.
Marco Magini, Come fossi solo, editore Giunti, 2014, 224 pagg., 14 €, ISBN 9788809994478. Disponibile in libreria e online sul Giunti Store, Amazon e IBS.

La quiete prima della tempesta

Dopo il mio post fiume di ieri, oggi sarò molto più sintetico.
Per capire che aria potrebbe tirare nel PD, specie dalle parti di Letta e dei suoi uomini, dopo l'intera vicenda che ha visto il partito scaricare il suo ex vice-segretario e premier.
Ecco un tweet che potrebbe aiutare a fare chiarezza.
Questo messaggio non lo dice esplicitamente, ma ciò indica che Letta quando ci sarà la fiducia al nuovo governo sarà assente, e quindi non la voterà. Chi ha qualche familiarità con lo stile di Letta, capisce che questo è davvero un gesto eclatante. È quasi certo che proverà a ricostituire la sua corrente e la sua presenza nel partito. Con quali intenti? Giudicate voi da questo video, con il passaggio di consegne tra Renzi e Letta.


Spero che Renzi abbia ben presente che se poteva lacerare ancora di più un partito non proprio granitico come il PD, beh ci è riuscito. Non pensate che la minoranza delle primarie (maggioranza però in parlamento) gli dia vita facile. Ma ne valeva davvero la pena? Il rischio è grandissimo, e riguarda non solo il PD, ma anche noi.

sabato 22 febbraio 2014

La staffetta tra toscani

Renzi annuncia la lista dei ministri del suo governo
Interrompo questo periodo di silenzio sul blog (dovuto a nobili ragioni: prima campagna alle primarie per Civati, poi scazzo) con un post dedicato alla nascita del primo governo a guida Renzi, il più giovane presidente del consiglio nella storia dell'Italia unita (questo primato apparteneva, e non è un precedente benaugurante, a Mussolini...).
Per chiarezza, dico subito che alle primarie del Partito Democratico dello scorso 8 dicembre non ho votato Renzi (ma Civati), così come nemmeno in quelle precedenti per la scelta del presidente del consiglio (dove ho scelto Bersani), e non ho trovato positivo il modo in cui egli ha scaricato il pur da me non approvato governo Letta, e per due motivi. Quando nella DC succedevano queste cose si cercava sempre una scusa politica, mentre il modo qui scelto è stato veramente brusco e rischia di lacerare ancor di più il non proprio granitico Partito Democratico. Inoltre, quello che non andava per me del governo Letta non era la presidenza di quest'ultimo, ma la maggioranza di governo che lo sosteneva e la mancanza di uno scadenzario preciso con le cose da fare prima di tornare subito al voto e porre termine a un'oggettivamente non desiderabile situazione di "larghe intese" (per quanto ridotte dall'uscita di Forza Italia dal governo), e ciò non è stato cambiato. Renzi, dopo aver conquistato il partito, voleva giustamente poter influenzare il governo, e sentiva che con Letta avrebbe rischiato di venire offuscato e trascinato nell'impopolarità, ma il modo scelto poteva e doveva essere migliore.
Questo post però vuole essere dedicato ad una prima (e quindi probabilmente superficiale) analisi della squadra di governo. Se si dà retta alla statistica, questo è il primo governo con un egual numero di ministri uomini e donne, con pochi dicasteri (sedici, di meno ne aveva solo il terzo governo a presidenza di De Gasperi) occupati da elementi con un età relativamente bassa (47 anni, ma questo dato lo cito a memoria). Però, come ho letto su un libro di De Crescenzo, la statistica è quella cosa per cui se si è con la testa nel forno e il culo nel freezer stai mediamente bene; meglio riformulato, ciò significa che i dati vanno interpretati e non solo snocciolati, altrimenti possono dare conclusioni errate.
Massimiliano Cencelli, autore dell'omonimo manuale 
Come diceva Cencelli, i posti da ministro non si contano, ma si pesano: esistono infatti incarichi tradizionalmente più importanti e altri che assumono rilevanza in base al periodo storico. Ad esempio, il Ministero dell'Economia è ovviamente un dicastero chiave in ogni governo; ai tempi della guerra fredda il Ministero della Difesa era probabilmente più importante di quanto lo sia oggi; infine quello delle Pari Opportunità (con tutto il rispetto per le battaglie sull'uguaglianza di genere) è un po' un riempitivo, tant'è che in questo governo è stato soppresso.
Per cui, oltre a dire che il basso numero di ministri è una novità positiva (anche se dovremo aspettare di sapere quanti sottosegretari saranno nominati), per valutare la cifra politica di un governo bisogna quindi individuare gli incarichi più importanti e poi andare a vedere chi li occupa. Nell'esecutivo Renzi ne ho individuati 6: Economia, Interno, Giustizia, Riforme, Esteri, Lavoro. Qui una galleria fotografica con tutti i ministri oggi nominati.
Pier Carlo Padoan, neo-ministro per l'Economia
Il dicastero dell'Economia è stato assegnato a Pier Carlo Padoan, un dirigente dell'OCSE. Il suo profilo è quello di un cosiddetto "tecnico", ossia di un uomo la cui carriera lavorativa non si è svolta principalmente nell'agone elettorale, con però rilevanti contaminazioni "politiche": egli infatti è stato un importante consulente economico della fondazione di D'Alema, Italianieuropei, e sembra sia in ottimi rapporti con Napolitano ed è generalmente ricondotto alla galassia del centro-sinistra.
Questo nome è quindi ascrivibile a pressioni del Presidente della Repubblica, che negli ultimi due governi ha sempre voluto un elemento con esperienza e notorietà internazionale per questo delicato ruolo, pur tuttavia venendo parzialmente incontro alle richieste di Renzi, che di figure tecniche al governo ne voleva il meno possibile (e infatti Padoan è l'unico di questa categoria tra i ministri).
La ministra degli Esteri Federica Mogherini

Speculare a questa filosofia è quindi la scelta del ministro degli Esteri: Federica Mogherini, con conoscenza nel campo della politica estera, è infatti responsabile Europa e Affari Istituzionali della segreteria politica del Partito Democratico, e quindi persona gradita a Renzi e per lui fidata.
Emma Bonino aveva decisamente maggiore esperienza e carisma internazionale, ma non aveva coperture politiche importanti e quindi è stata sacrificata nello scambio tra Quirinale e Renzi su questi due dicasteri significativi. Mi auguro comunque che la sua competenza possa essere premiante (ricordo il caso dei fucilieri italiani intrappolati in India, di assai delicata gestione). In più è stato soppresso il ministero degli Affari Europei, e sarà interessante vedere se tali deleghe saranno prese dalla Mogherini o da Renzi stesso.
La pattuglia del NCD nel governo Letta
Alla politique politicienne si deve la conferma di Alfano come ministro degli Interni: Alfano in particolare voleva conservare questo incarico e in generale il NCD non desiderava variazioni nella sua rappresentanza al governo. È stato quindi più semplice non toccare queste tessere per evitare complicate ripercussioni su tutte le altre caselle, anche a costo di mantenere un ministro che per dubbi diktat economici e oscuri interessi ha espulso la Shalabayeva, senza per questo venire sfiduciato o almeno criticato. Confermati anche Lupi di Comunione e Liberazione, che alle Infrastrutture continuerà a gestire la partita di EXPO 2015, fondamentale per le aziende lombarde legate a questo movimento politico di ispirazione religiosa.
Maria Elena Boschi, ministra delle Riforme
Ovviamente Renzi ha voluto persone di comprovata fiducia e lealtà in due ruoli importanti: il nuovo sottosegretario alla presidenza è il fedelissimo Graziano Delrio, noto soprattutto per essere stato il primo sindaco di Reggio-Emilia non cresciuto nelle file del PCI, mentre il ministro delle Riforme, va a Maria Elena Boschi, già responsabile su questi temi nella segreteria del PD, che in comune con Renzi ha la fulminante ascesa partita dalla Toscana e felicemente conclusasi a Roma passando per la Leopolda, l'evento di riferimento per i sostenitori del neo-premier. Quest'ultimo dicastero assume importanza non tanto per le deleghe ad esso assegnato (il termine riforme è quanto di più generico, vago e vacuamente ripetuto fino all'ossessione ci possa essere in politica, battuto forse di recente solo dall'espressione "buon senso"), ma per la delicatezza della partita con Berlusconi, interlocutore privilegiato in quanto leader dell'altro grosso partito presente in Parlamento (il M5S non ne vuole sapere di partecipare a grandi trattative con le altre forze): tale argomento infatti può essere usato per allungare o accorciare la vita del governo (ad esempio, tramite una legge elettorale che penalizza i piccoli partiti o avviando modifiche costituzionali, che necessariamente richiedono tempi lunghi), e quindi Renzi ha voluto per questa casella una persona fidata. Delrio invece fungerà da guida nelle procedure e nei rituali della politica romana, finora a Renzi essenzialmente sconosciuta nella sua quotidianità.
Forse sempre con l'intento di non giungere allo scontro diretto con Berlusconi, per poterlo sfruttare come sponda politica, si è nominato Andrea Orlando ministro della Giustizia, che lascia così il dicastero dell'Ambiente, a cui era stato messo in realtà inspiegabilmente, se non per dare un contentino all'ala dei bersaniani uscita sconfitta dalle elezioni e vittima più che fautrice delle prime larghe intese. Orlando infatti è stato membro delle commissioni Giustizia e Antimafia alla Camera, e nel 2010 ha provato a instaurare con il PDL un percorso per formulare una condivisa riforma della Giustizia. Ha vinto su altri nomi (es., Gratteri, Pomodoro, Cantone) che potevano essere considerati troppo intransigenti in una casella come quella della Giustizia, su cui Berlusconi e il suo partito hanno semre avuto grande interesse, per evitare le barricate da parte di questi ultimi sul cammino delle riforme, che invece fanno comodo a Renzi per i motivi esposti sopra.



Giuliano Poletti, nuovo ministro per il Lavoro
Chi da Renzi si aspettava dei forti strappi con il mondo più tradizionale della sinistra dovrà probabilmente ricredersi. Va in senso opposto infatti la nomina di Giuliano Poletti, a capo della Lega delle Cooperative, a ministro per il Lavoro. Egli proviene infatti da uno dei tre filoni (le cooperative, appunto), che assieme al sindacato e al partito hanno giocato un ruolo importante nella sinistra italiana, e in termini politici e di amministrazione, e generalmente considerato più vicino alla sinistra più tradizionale alla Bersani. Tale nomina potrebbe far pensare che le misure di Renzi in materia di legislazione del lavoro potrebbero essere meno sgradite a questo mondo di quanto si potesse inizialmente pensare.
La sua presenza è comunque bilanciata dall'incarico allo Sviluppo Economico assegnato a Federica Guidi, ex leader dei Giovani Industriali e importante esponente di Confindustria, anche per tradizione familiare. Queste due nomine dimostrano che Renzi ha ben presente che per governare è meglio confrontarsi con i tradizionali corpi sociali (sindacati, industriali, etc.) piuttosto che scontrarsi con essi.
Dario Franceschini, dai Rapporti col Parlamento alla Cultura
Per quanto concerne gli altri incarichi, stupisce che Franceschini, prima sostenitore di Bersani e poi uno dei grandi nomi che hanno sostenuto Renzi nelle primarie per la segreteria del PD, sia stato messo in un dicastero tutto sommato marginale come quello della Cultura. A meno che egli non voglia incarichi più defilati per poter meglio lavorare nel partito e quindi gestirlo, non comprendo questa nomina.
Insomma, il Renzi premier ha compreso che una rottamazione totale, almeno per il momento, non era possibile. Ha capito che per governare non si può fare la guerra a industriali e sindacati (consapevolezza per me positiva in realtà) e che bisogna cedere su qualcosa con i partiti alleati, cosa necessaria per quanto sgradita. La presenza femminile in dicasteri significativi è fortunatamente rilevante, pur se non nelle stesse proporzioni del governo nel suo complesso, anche con presenza di elementi tutto sommato giovani (ad esempio, Mogherini e Boschi). Non condivido per niente, invece, l'atteggiamento troppo condiscendente nei confronti di Berlusconi mostrato nella scelta del ministro della Giustizia. Intendiamoci, per me scegliere un magistrato non sarebbe stata garanzia di qualità, ma la nomina di Orlando è stata fatta chiaramente per poter mantenere un doppio binario: quello con Alfano per la gestione del governo e quello di Berlusconi per le riforme, con lo scopo di mettere contro costoro e quindi usare uno dei due per diminuire l'altro a seconda della necessità. Se c'era una cosa buona del governo Letta era che era riuscito a mettere in un angolo politicamente Berlusconi, pur con l'effetto collaterale di rendere importante un tutto sommato insignificante Alfano. Renzi lo ha riesumato prima per innervosire Alfano e mettere in difficoltà il governo Letta, ora per cercare di frenare il leader di NCD nelle sue pretese al governo. Attenzione però: è difficile pensare che i due non si presentino uniti alle prossime elezioni, e quindi sarà molto difficile dividerli per davvero. Se a Renzi ciò riuscisse, sarebbe forse uno dei suoi più grandi successi elettorali. 
Speriamo però che possa vantarne altri, altrimenti non so davvero quali possano essere le conseguenze di un altro fallimento.
Come premio per chi ha avuto la pazienza di arrivare alla fine questo lungo post, offro un video di Crozza-Renzi, in cui si parla del programma (ah, i contenuti, altro ritornello ripetuto all'infinito nella politica di oggi...)