venerdì 5 luglio 2013

Egitto e Turchia: quando l'esercito fa la differenza

Piazza Tahrir stracolma di gioia per la deposizione di Morsi
Due anni fa l'Egitto esultava per la caduta del regime di Mubarak, che con l'appoggio dell'esercito governava da trent'anni il paese. Era, assieme a quello libico, il più considerevole rivolgimento del Mediterraneo, ed era (almeno apparentemente, ma questo lo saprà solo la storia) totalmente dovuto a pressioni interne: un paese di 90 milioni di persone prendeva in mano il suo destino politico e mandava a casa il dittatore, l'apoteosi della cosiddetta Primavera Araba.
Oggi come allora, Piazza Tahrir, la principale piazza de Il Cairo, si riempie di manifestanti che festeggiano la caduta di un governo: questa volta però il presidente deposto, Morsi, non era un dittatore, ma un politico eletto da votazioni democratiche, nelle quali i Fratelli Musulmani avevano riportato un cospicuo successo. Questi ultimi sono un movimento politico d'ispirazione islamica e fortemente organizzato sin dalla clandestinità durante il regime di Mubarak. Fondamentale per questo putsch è stato il ruolo dell'esercito: l'ultimatum a Morsi e al suo governo, il cui rifiuto ha poi portato alla deposizione dell'esecutivo, è stato annunciato dal capo delle Forze Armate, e in esso si chiedeva un cambio della politica del governo in carica che venisse incontro alle richieste dei manifestanti, che già da qualche giorno erano tornati a riempire le piazze.
I motivi del malcontento? La crisi economica egiziana, dovuta principalmente all'instabilità politica che ha fatto fuggire i turisti, unica vera risorsa per questo paese, che morde, anzi, azzanna la carne viva dei cittadini, ma anche la forte politica di islamizzazione del paese, culminata con la nuova costituzione approvata dal referendum dello scorso inverno, in cui si introducevano elementi della Sharia, la legge d'ispirazione coranica, nella legislazione nazionale: quest'ultima consultazione, che ha visto i sì vincere con il 64% delle preferenze, è stata accompagnata da forti polemiche su brogli e irregolarità.
Ricordiamo però un paio di cose: i Fratelli Musulmani, e il partito loro emanazione in Egitto Partito Liberà e Giustizia, sono legati a doppio filo con i palestinesi di Hamas, considerati terroristi dall'Unione Europea e dagli USA. Quello che è certo è che la politica egiziana, che sotto Mubarak era caratterizzata da buoni rapporti con Israele e gli USA, sotto il nuovo corso era sicuramente diversa, con continui incidenti alla frontiera (qui un esempio). Ma soprattutto vi era il pericolo per gli USA, dopo il fallimento della guerra in Iraq e le posizioni neootomaniste della Turchia, sempre più insofferente all'influenza occidentale, di perdere un altro stato amico quale era l'Egitto di Mubarak e di avere il solo Israele come avamposto in Medio Oriente. Insomma, non è che il nuovo corso facesse proprio piacere alle potenze occidentali...
Per questo io vedo nei nuovi fatti d'Egitto la convergenza di tre attori: i timori degli USA, la voglia di rivalsa dell'esercito e un forte scontento popolare effettivamente diffuso, e probabilmente almeno il secondo ha approfittato del terzo per riottenere il potere. Se però due anni fa c'era un'intera nazione unita contro il regime, oggi il paese appare spaccato in due: piazza Tahrir è piena e rappresenta il malcontento metropolitano, ma l'Egitto non è fatto solo di giovani e grandi città. Il consenso verso i Fratelli Musulmani è ancora forte, e il rischio è che avvenga qualcosa di simile a quanto accaduto nel 1992 in Algeria: dopo la vittoria del Fronte Islamico di Salvezza, altro partito islamista, i militari presero il potere annullando le elezioni, e il risultato fu una lunga guerra civile. Una radicalizzazione delle posizioni in campo potrebbe portare a un'estremizzazione dei Fratelli Musulmani e, perché no, anche a una loro congiunzione con i più radicali Salafiti: insomma, la situazione è in completa e continua evoluzione.
Per riassumere, la vera colpa di Morsi è stata forse non riuscire a riappacificarsi o a rendere inoffensivo l'esercito, vero potere nello stato egiziano e grande vincitore di queste giornate.
E la Turchia in tutto ciò che c'entra? È di questi giorni la notizia che un tribunale ha dato ragione ai manifestanti di Gezi Park: niente palazzi in questo parco di Istanbul, come volevano i primi a essere scesi in piazza, prima che ad essi si saldasse uno scontento per la politica del presidente Erdogan. Il paese, marginalizzato dall'Unione Europea dopo anni di rinvii sul suo ingresso e in poderosa crescita economica, cerca ora di crearsi una sua zona di influenza, e sta quindi accentuando, seppur in maniera non aggressiva, l'influenza islamica sullo stato, con maggiori attriti con l'occidente e in particolare Israele (vedere l'incidente della Freedom Flotilla).
Ma perché le manifestazioni di Gezi Park non hanno scalfito il potere di Erdogan e del suo partito, l'AKP? Anche in Turchia l'esercito ha storicamente un ruolo importante, ma Erdogan è stato capace di ridurne gradualmente l'influenza a vantaggio della polizia, e di inserire uomini del suo partito nell'apparato statale. Di conseguenza, è mancata ai manifestanti una forte sponda politica che riuscisse a rovesciare la situazione.
Ancora una volta, nei paesi del Medio Oriente, l'esercito si conferma quindi un attore importantissimo, che può fare la differenza tra un golpe riuscito e una manifestazione repressa.
Ora però vi lascio per un film intellettuale: la 28esima replica de "L'allenatore nel pallone", evento da non perdere ;) Spero che il mio post sia stato più chiaro delle lezioni di tattica del mitico Oronzo Canà... Buona notte!

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